La Bessarabia era stata annessa all’Unione Sovietica nel 1940 a seguito del patto Molotov-Ribbentrop, assumendo il nome di Repubblica Socialista Sovietica Moldova.
Quando nel 1991 cade il baluardo dell’URSS, il presidente in carica Mickail Gorbacev decreta che tutte le province occupate devono riprendere i confini nazionali preesistenti alla loro invasione.
La regione della Transnistria, che storicamente faceva parte della Bessarabia, aveva chiesto la propria indipendenza un anno prima della dissoluzione sovietica, iniziando così una serie di contrasti con la neonata Repubblica di Moldova che ne rivendicava l’appartenenza.
Gli scontri confluirono nel 1992 in una vera e propria guerra. Le forze moldave erano spalleggiate dalla Romania e quelle transnistriane dalla 14° Armata Russa che ebbero la meglio, arrivando a conquistare anche Bender, la città di confine al di là del fiume Dnestr.
Oggi la Repubblica Moldova di Transnistria, in russo Pridnestrovskaja Moldavskaja Respublika, è uno Stato indipendente non riconosciuto dall’ONU, e paradossalmente neppure dalla Federazione Russa. Si tratta di una striscia di terra di circa trecento chilometri di lunghezza, con il punto più largo che non supera i quaranta chilometri, e una popolazione a maggioranza russofona di quasi quattrocentosettantamila persone.
In Transnistria tutto è Sheriff. Alla vigilia dell’autoproclamata Repubblica di Transnistria viene istituita da due ex agenti del KGB una holding con capitale pubblico, la Sheriff, destinata ad operare in tutti i settori economici e ancora oggi in espansione. Inizialmente prendono vita i supermercati, ma lo sviluppo abbraccia presto l’edilizia, l’editoria, la televisione, il mercato automobilistico e la distribuzione di carburante. L’azienda, ma forse sarebbe più opportuno parlare di Azienda-Stato, è presente anche nello sport. Infatti è titolare anche della pluripremiata squadra calcistica, ovviamente lo Sheriff, e del moderno campo in cui disputa le partite nazionali e internazionali. In Transnistria brilla la stella Sheriff.
Oltre alla propria bandiera e all’inno nazionale, all’esercito e alla polizia, la Transnistria possiede anche una propria moneta: il rublo transnistriano. E anche in questo si riscontrano delle curiosità alquanto bizzarre. Sul retro della banconota da 5 rubli è raffigurata la facciata della fabbrica di brandy Kvint, che naturalmente è di proprietà della Sheriff; dunque questa è l’unica banconota al mondo dove viene rappresentata un’azienda privata. Inoltre dal 2016 sono state introdotte nuove monete in un innovativo materiale plastico che al momento non è utilizzato in nessuna altra parte del mondo; sembrano le fiches di un gioco da tavolo, ma in teoria dovrebbero essere ecologicamente avanzate dato che sono riciclabili, più leggere e meglio trasportabili, nonché più economiche da produrre rispetto ai metalli.
Anche la Gagauzia, regione a statuto speciale a sud della Moldova, condivide le stesse aspirazioni politiche della Transnistria, confermate dai recenti colloqui con Mosca della presidente Evghenia Gutul, ma per adesso sembra accontentarsi di un governatorato autonomo.
Le ultime richieste di aiuto della Transnistria alla Russia, che comunque già mantiene una forza militare sul territorio e fornisce gas gratuitamente, sono ulteriori fattori che determinano una certa instabilità nella zona, probabilmente destinata a rivedere nuovamente i propri confini.
Sul posto di frontiera sventola una bandiera su cui è impressa una stella e il simbolo della falce e martello. Il visto di ingresso turistico, che ha una validità massima di tre giorni per chi dimostra di avere un alloggio in cui risiedere, viene rilasciato su un foglietto di carta per non lasciare tracce di timbri sul passaporto.
A Bender del vecchio luna-park abbandonato non rimane poi molto. La ruota panoramica ricorda quella di Chernobyl, un pennacchio di ruggine che svetta verso il cielo in attesa di crollare su se stesso; troppo costoso per essere smantellato e rivenduto come è accaduto con le altre attrazioni.
Invece l’imponente granaio formato da trentanove giganteschi silos, in cui veniva stivato il grano proveniente dall’Ucraina, necessario a rifornire l’intera regione, sembra resistere al tempo di inutilizzo come una cattedrale nel deserto.
Nella fortezza di Tighina, di cui il primo impianto risale al periodo ottomano, le impressionanti immagini e le macchine della tortura ci ricordano la violenza e il terrore perpetrati in questa terra a partire dal medioevo.
I vecchi filobus celesti sovietici sferragliano sulle rotaie. Scarni e senza riscaldamento, vengono i brividi di freddo solo a guardare i malandati sedili in pelle nera, con l’imbottitura rigida e i maniglioni di acciaio. Durante l’ora di pranzo i conducenti lasciano le porte aperte, mettono il cartello “obed” (pranzo) e vanno a mangiare. Noi ci fermiamo alla Mensa dell’Unione Sovietica. L’insegna CCCP e la falce e martello sulla porta sono il segno più tangibile che si tratta di un luogo per nostalgici. Saliamo le scale scortati dallo sguardo imperterrito di una statua di Lenin. Nella sala ogni parete è tappezzata con poster e bandiere dell’epoca in cui il socialismo imponeva il suo stile e dettava la propria fede. Ovunque ci sono cimeli di un tempo polveroso che sembra così lontano, ma è solo un’apparenza dovuta al fatto che il progresso ha corso anche troppo velocemente negli ultimi decenni. Anche le sedie incappucciate sono datate, e perfino le tovaglie sui tavoli sono rosse. Ci mettiamo in fila proprio come gli operai di una mensa e Irina, una paffuta ragazza di poche parole, non esita a schiaffare nei piatti abbondanti porzioni di quello che le indichiamo. Da veri “compagni” assaggiamo il borscht (zuppa di barbabietola) e la kartoshka (torta di patate), veramente buoni. Quando ci alziamo per uscire Irina, con le guance rosse come il grembiule che indossa e il fazzoletto in testa da autentica babushka, ci regala un grande sorriso, dolce e vagamente malinconico, che assumiamo come un saluto.
Davanti al municipio sono incorniciate fotografie di oligarchi, generali, personaggi eminenti e dell’attuale presidente Vadim Krasnosel’skij. Lo stabile, restaurato dopo la guerra, ha una parete laterale crivellata di colpi che è stata lasciata intatta, come monito, monumento o memoriale. Questa piazza porta ancora le tracce della dura battaglia che si è combattuta per l’indipendenza e ogni passo è imbevuto di sangue.
Vicino alla stazione ferroviaria da dove partivano i convogli per Odessa, oramai abbandonata da quando è iniziato il conflitto in Ucraina, ha trovato riposo su un binario morto quello che chiamano il treno di Lenin. Imbalsamato nel tempo, con la grande stella rossa sbiadita sulla motrice a vapore, sembra davvero un monumento consacrato all’epoca sovietica.
Una luce azzurrina tipica dei paesi freddi contrasta con un tramonto rosso fuoco, è l’ora di muoversi verso la capitale di questa nazione-non-nazione.
La camera dell’ostello in cui alloggiamo sembra quella di un boudoir, luci soffuse, pareti rosse, il soffitto a specchio e uno strano palo nel centro della stanza che ricorda vagamente quello per la lap-dance. E all’ingresso una enorme statua di Lenin agghindato da Babbo Natale. Nel corridoio di accesso è tutto un tripudio di suppellettili, bandiere e quadri di Lenin. Per entrare dobbiamo indossare le ciabatte, come è abitudine nelle case dei luoghi dove nevica spesso. Sulla rastrelliera ce ne sono una collezione, raccattate un po’ ovunque e chissà dove. A me ne tocca un paio di quelle bianche da hotel, sudice e con la suola talmente consunta che immediatamente si gelano le piante dei piedi.
All’accoglienza c’è Alain, uno strano individuo, minuto e quasi schivo, ma dai modi garbati. Alain è un francese scappato dalla madrepatria perché, a suo dire, perseguitato per le proprie idee politiche. Ci racconta una storia alquanto bizzarra, ingarbugliata quanto fantasmagorica, della quale alla fine non si riesce ad afferrare molto. Quando dice di avere chiesto asilo politico proprio in Transnistria, lo guardiamo sbalorditi, così come immaginiamo abbia fatto il funzionario amministrativo che ha raccolto la sua domanda.
La mattina seguente incontriamo Anatolj, un ragazzone in camicia bianca e giubbottino di pelle, il vestito della domenica tradito dal solito mocassino piatto con la punta squadrata che da decenni è la moda centroasiatica. L’apparenza rude cela una certa timidezza, ma in realtà la difficoltà di dialogo è dovuta al fatto che parla soltanto russo.
Anatolj ci porta verso la periferia di Tiraspol in una vecchia scuola abbandonata di cui possiede le chiavi e, visto che ci esprimiamo quasi esclusivamente a gesti, non sapremo mai il motivo. Una parete in vetrocemento che guarda sul cortile è crivellata di colpi. Fa effetto pensare che anche nell’innocenza di una scuola si sia combattuto. Poi Anatolj ci indica un’aula disseminata di libri. Piange il cuore nel vedere tanta cultura così oltraggiata. L’istinto ci direbbe di riordinarli, ma sarebbe un lavoro inutile, allora ci inginocchiamo a terra per sfogliarne alcuni. Il nostro amico, accortosi della sensibilità che nutriamo, ci fa segno di prenderne alcuni. Il gesto sembra irrispettoso, ma comprendiamo il senso che lui intende spiegarci: prelevarne alcuni non è sottrarli a qualcuno, anzi è dargli una nuova vita, perché nel migliore dei casi sono destinati a marcire sul pavimento, altrimenti verranno bruciati quando le autorità decideranno di abbattere la scuola.
Anatolj è una continua sorpresa così, dopo averci fatto deliziare in un ameno ristorantino con una succosa placinta, una specie di piadina in pasta sfoglia ripiena di formaggio di capra che a suo dire è la migliore della città, ci porta ad un poligono di tiro. Oramai abbiamo imparato che ci sono luoghi nel mondo in cui ciò che a noi sembra incredibile lì è semplicemente la normalità. Il volto di un popolo spesso è il frutto della sua storia. E in meno che non si dica ci ritroviamo con un kalashnikov in mano. Certo l’esperienza non sarà edificante, pensiamo, ma se provare non fa male a nessuno, tanto vale mirare a quei bersagli a cinquanta metri di distanza.
Davanti al Parlamento campeggia una statua di Lenin in granito rosa che dall’alto della colonna sembra sorvegliare la vecchia Lada parcheggiata sotto. La giornata è uggiosa, l’umidità entra fino nelle ossa, ma malgrado la nebbia e la pioggerellina due donne stanno deponendo dei fiori su una tomba del mausoleo ai caduti dall’altra parte della strada. Ce ne sono diversi perché qui i morti nelle guerre non sono solo morti, ma eroi nazionali da glorificare, sacrificati alla causa, qualunque essa sia. E a suggellare la scenografia non manca quasi mai un carro armato e una fiamma perpetua.
Alla Casa di Soviet incrociamo un altro busto di Lenin, questa volta in bronzo, tanto per differenziarlo. Non sia mai che qualcuno si dimentichi di venerarlo, pensiamo. E sul fianco di una palazzina troviamo la gigantografia di Jurij Gagarin, rappresentato come sempre bello e sorridente dentro il suo casco da astronauta targato CCCP.
La sera abbiamo prenotato la cena, tanto per non farci mancare niente dell’atmosfera, al ristorante CCCP. Se ci trovassimo in un posto turistico potremmo credere che si tratta di un’attrazione, ma a Tiraspol di turisti non c’è neppure l’ombra. Anche qui la saletta all’ingresso è un reliquiario. Busti e quadri di Lenin, Stalin Marx e Engels sono ammontati sugli scaffali e tappezzano le pareti. Nella sala un’orchestrina suona canzoni russe moderne. C’è un fracasso terribile, anche perché una tavolata di amici sta festeggiando un compleanno. Sono tutti su di giri e non passerà molto tempo prima che abbiano alzato di parecchio il gomito. Hanno una tavola talmente piena di piatti che non sarebbe possibile appoggiare neppure un bicchiere, e mentre gli uomini conversano come baritoni, le ragazze si danno a balli sfrenati davanti al bancone del bar. La cameriera indossa un vestitino a fiori e sembra proprio una contadinella il giorno della festa. Comunque è gentile, e poiché parla qualche parola di inglese riusciamo ad ordinare degli spiedini di carne davvero speciali che non manchiamo di innaffiare con un’ottima vodka.
Il giorno seguente facciamo rotta verso nord. Risaliremo questa striscia di terra per vedere se anche nei centri minori si respira la solita aria delle cittadine più grandi.
L’aria è frizzante e i campi risplendono di una luce quasi accecate sotto il sole del mattino. Le pensiline delle fermate degli autobus richiamano alla memoria un fascino antico, e fotograficamente irresistibile. Lo stile sovietico è inconfondibile, ogni tettoia è costruita in modo diverso, e ognuna ha una decorazione a piastrelle colorate differente. Anche le indicazioni di ingresso ad una regione sono particolari. Mentre in occidente vengo utilizzati da sempre normali cartelli con il nome, nella cultura architettonica sovietica dovevano assumere un carattere di grandiosità, dunque venivano costruiti veri e propri monumenti, astratti o figurativi, ma sempre con forme e colori diversi. Malgrado l’uso indiscriminato del cemento voluto dal brutalismo, queste strutture sembrano dare un tocco artistico e fantasioso al grigio rigore questa particolare architettura.
A Dubasari troviamo Lenin in versione argentata, e in verità anche leggermente scrostata. Dall’alto del capitello il mezzobusto con il berretto in mano sembra appoggiato ad un balcone. Ci fermiamo a prendere un caffè in un chiosco sulla strada e un vecchio camion attira la nostra attenzione. Appena proviamo a fotografarlo il proprietario scende dal mezzo e ci chiede malamente cosa stiamo facendo. Dopo avergli spiegato il nostro inoffensivo intento, riparte senza neppure prendere il caffè per il quale si era fermato. In generale le persone appaiono più chiuse rispetto alla capitale, dove almeno ogni tanto si vedono degli stranieri. Sembra quasi che il sospetto sia un’abitudine inveterata e difficilmente riusciamo ad avvicinare e parlare con qualcuno.
Nella piazza principale di Ribnita svetta un’altra statua di Lenin in bronzo su una colonna di marmo. Impettito come forse non lo è mai stato, ha uno sguardo sereno e disinvolto che guarda l’orizzonte come a simboleggiare il radioso futuro. È trascorso un secolo da quando teorizzava il benessere del socialismo, ma qui la gente non sembra ancora passarsela molto bene, tanto è vero che quasi la metà dei transnistriani, malgrado l’apparente ordine e pulizia che si nota nelle strade, ha emigrato o lavora fuori dalla regione. In giro si vedono pochi negozi e fuori dai centri abitati più grossi sopravvive una società rurale ancora scarsamente evoluta.
Sulla strada per Camenca, proprio nel cortile di una Casa della Cultura di un paesino, rimaniamo abbagliati da una statua dorata particolarmente appariscente. Appena ci avviciniamo dall’edificio parte una musica simile ad una balalaika e scherziamo sul fatto che ci stanno dando il benvenuto. Ecco la versione dorata di Lenin che mancava alla collezione fotografica, così non lo avevamo davvero mai visto. Si tratta di una rappresentazione quasi a grandezza naturale, seduto e con dei bambini, in atteggiamento patriarcale. Come da tradizione dei migliori sistemi oligarchici, il leader assume le sembianze di padre di famiglia, dove la famiglia viene considerata per antonomasia il cuore sano della collettività.
Rientriamo in Moldova per scendere in Gagauzia.
Come è noto questa regione autonoma strizza l’occhio a Mosca, ma allo stesso tempo riceve sovvenzioni anche dalla Turchia attraverso la Tika, un’agenzia governativa turca che promuove lo sviluppo di paesi turcofoni o comunque che abbiano avuto in passato forti legami con Ankara. E ovviamente per Chisinau, che ha ufficialmente chiesto di entrare nella Comunità Europea, anche questa entità territoriale rappresenta una spina nel fianco.
Comrat, la capitale, appare come un sonnolento paesone in cui aleggia un’atmosfera di cupezza e malinconia. Del resto di cosa dovrebbe rallegrarsi la popolazione di una regione considerata la più povera dell’Europa.
Nella piazza principale è stato allestito per le festività di fine anno un piccolo luna-park. I bambini, nell’innocenza che li caratterizza ovunque nel mondo, anche qui sembrano divertirsi. Su un palchetto per concerti cinque babushke gagauze si esibiscono con delle canzoni popolari non proprio allegre, sono quasi un lamento ossessivo, tormentato e straziante. Vista la scarsità di pubblico e l’indifferenza della gente hanno pensato bene di indossare piumini e cappotti sopra gli abiti tradizionali per ripararsi dal freddo. E tra le giostre ecco spuntare l’onnipresente Lenin, in bronzo verde slavato, con lo sguardo fiero, la cravatta e il panciotto sotto il cappotto al vento, che sembra muovere i passi verso il popolo che lo attende.
A Gaidar vediamo un vecchio mulino a vento restaurato con finanziamenti stranieri. Nella regione ne esistevano duemilaseicento, ma questo esemplare è rimasto l’unico sopravvissuto. Giace tutto solo in mezzo a una pianura, come un’anima dispersa, e mentre un tramonto infuocato crea una scenografia surreale, ci avviciniamo come Don Chisciotte per affrontarlo fotograficamente più da vicino.
Arriviamo a Ceadir Lunga che è oramai notte e per le strade incrociamo soltanto l’ennesimo Lenin. Stasera è in versione oro. impettito, con una mano al fianco, sembra in procinto di pronunciare uno dei suoi più austeri discorsi. Serioso e vigile, proprio come quando dichiarò: “La fiducia è bene, il controllo è meglio”.
Che ironia della sorte, che destino grottesco. Un uomo che ha combattuto tutta la vita contro la religione e le divinità, si ritrova idolatrato e divinizzato.
Lo abbiamo inseguito, icona immortale imbalsamata in mille manifestazioni, lui, Lenin forever!