“Pax et Bonum”, esclamo al Cappuccino che sta alla cassa. Mi guarda attonito, ma non troppo, quasi distratto o svogliato. Forse le esperienze della vita, il vissuto stratificato che non lascia trapelare fino alle corde della curiosità, sono il motivo per non chiedere del mio latinismo: il classico saluto tra frati. L’imponente uomo sotto il grezzo saio marrone con la cordicella bianca di cotone legata in vita proprio sotto la prorompente pancia, sembra più attratto dalla manciata di spiccioli che ho in mano e, senza contarli, mi chiede di lasciare tutto sul bancone di legno consumato dal tempo. Poi strappa un bigliettino di quelli da lotteria e mi indica il corridoio in discesa senza proferire parola; che sia un nuovo ordine di Cappuccini di clausura, mi domando divertito dall’incontro con il religioso.

Si entra un po’ in punta di piedi in questo luogo ameno, non tanto per il timore che qualche scheletro possa cascarci addosso, che pure il rischio sussiste tanto sembrano precariamente appesi alle pareti, o per ossequio, sia pure sempre doveroso nei luoghi sacri, quanto piuttosto per un senso di incredulità verso certe manifestazioni dell’uomo di fronte alla morte.

Sotto terra, appena un piano più in basso del manto stradale, si snodano i corridoi delle incredibili Catacombe dei Cappuccini di Palermo, un impressionante labirinto che ospita uno spettacolo macabro definito dai dépliant come “un patrimonio culturale unico nel suo genere”.

Il luogo è indubbiamente suggestivo e lo stato di conservazione dei cadaveri, ancora nei loro indumenti originali, racconta gli usi, i costumi e le tradizioni della società palermitana benestante tra il XVII e il XIX secolo.

Alcuni sembrano manichini appesi come marionette, altri invece presentano crani rotti come cocci, ma forse la salma più impressionante è quella dell’ultima bambina portata in queste lugubri cripte ai primi del secolo scorso in via del tutto eccezionale dopo la chiusura definitiva del 1880. Rosalia Lombardo, morta alla tenera età di due anni e imbalsamata artificialmente mediante iniezioni di sostanze chimiche, presenta ancora oggi un volto intatto, con i riccioli biondi che scendono sulla fronte, la pelle morbida e un’espressione quasi serena nella sua piccola bara di legno.

Quasi impietrito davanti un cadavere che stento perfino a fotografare, vengo affiancato da Angelo, un anziano signore che mi confessa di venire spesso a visitare la salma che abbiamo davanti perché, secondo le sue ricerche, si tratta di un facoltoso commerciante cittadino appartenente all’albero genealogico della sua famiglia.

L’uomo sembra conoscere perfettamente la storia di questo luogo e, vista la mia attenzione, inizia a raccontarmi le interessanti informazioni che ha raccolto da diversi anni.

In origine i Frati Cappuccini che si erano stabiliti a Palermo nel 1534 avevano scavato una fossa comune sotto l’altare di Sant’Anna, presso la chiesa di Santa Maria della Pace, per seppellire i confratelli deceduti calandoli dall’alto avvolti in un lenzuolo.

In circa mezzo secolo la cisterna divenne insufficiente e quindi la confraternita decise di costruire un nuovo cimitero sotterraneo proprio dietro l’altare maggiore, scavando in un paio di anni i corridoi delle Catacombe probabilmente in direzione di antiche grotte.
Durante la traslazione delle salme nella nuova sepoltura, i frati si accorsero con sorpresa che alcuni corpi erano rimasti praticamente intatti, mummificati naturalmente, e interpretarono il fatto come un segno divino, decidendo di esporre i cadaveri in piedi dentro delle nicchie ricavate nelle pareti dei corridoi.
Incuriosito dalla storia, chiedo ad Angelo qualche particolare riguardo alle tecnica di mummificazione naturale perfezionate dai Cappuccini, e lui a voce bassa, quasi non volesse disturbare i cadaveri, inizia a raccontarmi di questa macabra pratica come farebbe un professore di patologia in cattedra.

Il processo di trasformazione del corpo si basa sulla disidratazione, ovvero sull’eliminazione dei fluidi presenti nei tessuti. In tale modo viene bloccata la crescita batterica e, di conseguenza, si arresta anche la putrefazione del cadavere.
I Frati portavano i corpi dei defunti in un’apposita stanza chiamata “colatoio” dove venivano asportati gli organi interni, per sostituirli poi con paglia o foglie di alloro che favorivano la disidratazione.

Per quasi un anno i corpi restavano chiusi in questi ambienti sotterranei, caratterizzati da una bassa umidità, distesi orizzontalmente su apposite strutture di drenaggio dove si essiccavano perdendo lentamente l’acqua presente nei tessuti. Inoltre per fronteggiare le epidemie che in alcuni periodi dilagavano in città, alle salme venivano fatti dei bagni di arsenico o di latte di calce che aumentava la rigidità e prolungava la durata nel tempo.

Successivamente venivano puliti con l’aceto e messi all’aria aperta, e infine rivestiti con i loro abiti migliori e collocati nelle nicchie che erano state loro riservate.
A questo punto Angelo, con un lieve sorriso sotto la barba incolta, sembra pavoneggiarsi nel suo doppio petto gessato per la lezione appena elargita, e io ne approfitto incalzando con un’altra domanda riguardo al motivo che spingeva le persone ad affidare ai Frati i propri congiunti.

Pressati dalle richieste, alla fine del Settecento i Cappuccini decisero di concedere la sepoltura a tutti coloro che fossero stati in grado di permettersi i costi delle pratiche di imbalsamazione. Così vennero creati nuovi corridoi per accogliere sempre maggiori salme in quello che sarebbe diventato un vero e proprio “museo della morte”.

Spinti dal desiderio di preservare il corpo a tutti i costi anche dopo la morte al fine di poterlo ancora vedere e parlargli, senza limitarsi solo a piangere su una tomba, furono migliaia le persone che, in cambio di ricche donazioni, affidarono i propri cari alle pratiche di mummificazione naturale dei Frati Cappuccini, chiedendo di esporli nel cimitero.

Sconcertato dalla nuova scoperta e frastornato da questa comunione tra il mondo dei morti e quello dei vivi, ringrazio l’amico che si è prodigato in esaurienti spiegazioni, e mi congedo per addentrarmi nei corridoi e scattare alcuni “ritratti” e qualche insolita fotografia agli ambienti degni di quel “dark tourism” che anima tanti appassionati di questo genere.