Aeroporto di Bologna. “Baghdad? Ma cosa ci andate a fare? Non è pericoloso?”. Le domande della hostess al check-in mentre controlla i nostri passaporti suonano come esclamazioni minacciose. E per giunta non ha neppure informazioni a riguardo dei documenti necessari per questa destinazione, tanto che deve fare intervenire un suo superiore. È difficile rispondere all’ignoranza, intesa come incompetenza, più difficile che misurarsi con l’intelligenza, così cerchiamo di svicolare la conversazione buttandola sullo scherzo, “andiamo a vedere se hanno sminato bene”, come se fossimo privi di motivazioni. Del resto come biasimarli, non esistono neppure le guide di viaggio per tutte le recenti avventure che affrontiamo. Alla fine ci consegnano le carte d’imbarco tra banali sorrisi e inutili auguri, guardandoci partire come se fossimo extraterrestri o appestati. Forse un po’ malati lo siamo davvero, si chiama curiosità, o anche conoscenza, e visto che non riusciamo a curarla con i libri, cerchiamo di lenirla viaggiando. In verità anche questa volta non sappiamo bene cosa aspettarci, ma questo, come sempre, è uno dei lati eccitanti del viaggio.

Sul volo per Istanbul, che oramai è diventato uno scalo abitudinario verso le destinazioni degli ultimi anni, sonnecchiavo e non mi ero accorto che qualcuno aveva occupato il sedile accanto al mio. Dopo tanto tempo gli aerei hanno ancora un effetto soporifero sui miei sensi, tanto che certe volte ho addirittura immaginato che le compagnie immettessero dell’etere nelle bocchette dell’aerazione. Poi il rollio sordo del decollo mi ha fatto aprire gli occhi, proprio mentre il velivolo si staccava dal suolo. Il fracasso era tale che sembrava si stessero per staccare le ali dalla fusoliera. Un tempo in questi momenti riuscivo a percepire quella sensazione del vuoto che si prova sugli ottovolanti, o quanto meno mi piaceva immaginarla tale, ma oggi l’esperienza sedimentata mi fa solo sorridere come un bambino che, inconsciamente e senza preoccupazioni, si diverte con il trambusto provocato dallo scaraventare i giocattoli a terra.

La stazza della ragazza al mio fianco sembrava perfettamente incastonata nel sedile, proprio come la tessera di un puzzle infilata in un’altra. I pantaloni di velluto a coste larghe di colore oro incartavano le cosce come due gianduiotti, e i capelli corvini le ricadevano sul viso come due tende oscuranti che impedivano totalmente la vista del volto. La maschera era così oscurante che non avrei saputo decifrarne l’età. Lo sguardo fisso sullo schermo del cellulare mentre i pollici di entrambe le mani erano indaffarati in chissà quale impegnativo lavoro. Richiusi gli occhi nella totale indifferenza che mi procurano certe persone così assorbite in modo sbalorditivo dal loro inutile impegno, tanto da fingere di non accorgersi del mondo che le circonda, anche da quello così vicino.

Quando riaprii nuovamente gli occhi eravamo sopra le nuvole, gonfie e bellissime nel loro candore, e voltandomi di lato sorpresi la ragazza con lo sguardo ipnotizzato sulla schermata iniziale dell’apparecchio che di telefonico mantiene solo il nome. Lo teneva religiosamente tra le mani immobili come fosse un testo sacro. Rimasi un po’ ad osservarla, era assente più che attonita, catatonica. Non sapeva più quali tasti muovere, ma allo stesso tempo non riusciva a staccare lo sguardo da quello strumento. Pensai che quella era una vera tortura per la poveretta. Oramai ci sono persone che hanno passato anche la fase della schiavitù da cellulare, per entrare irreparabilmente in uno stadio apoplettico. Mi guardai intorno e osservai che, non solo su questo aereo, ma in tutti gli aeroporti, non si vede più nessuno con un libro in mano. Le persone mangiano, dormono oppure tengono la testa ricurva sul cellulare. Certe volte mi sento una mosca bianca, o una pecora nera, e forse tra un po’ mi guarderanno tutti come un alieno, ma non riesco proprio a staccarmi da una buona lettura.

È già notte quando ci abbassiamo e il comandante, biascicando uno stentato inglese, annuncia che stiamo per atterrare. L’aereo fa una lunga virata, abbassando l’ala che copriva la visuale della città dall’alto. Bagdad ci dà il benvenuto da terra con una suggestiva selva di luci dorate che si dissolvono all’orizzonte nella nebbia. Quando si dice che la realtà supera l’immaginazione, ebbene questa metropoli è ben più ampia di quanto avevamo immaginato.

Puntuale come sempre arriva il messaggio dell’Unità di Crisi de La Farnesina che invita a registrarsi per essere contattati in caso di emergenza. Lo ignoriamo come al solito perché ci sembra abbia poco senso: visto che hanno già scritto, sanno già dove siamo.

Le formalità doganali sono più semplici del previsto. Consegniamo i passaporti ad un militare appostato dietro un anonimo banchetto. Nella sala d’attesa ci sono diverse persone, ma di stranieri neppure l’ombra. Dopo una mezz’ora l’uomo torna con un mazzo di passaporti e li consegna uno ad uno previo pagamento di settantasette dollari americani. Le porte automatiche si aprono, siamo nel Paese che da anni accarezziamo il sogno di visitare e dove fino a non più di qualche mese fa potevamo solo sperare di andare.

Per entrare in città transitiamo sull’arteria che nel 2003 veniva chiamata Route Irish, ed era conosciuta come la strada più pericolosa del mondo. Quei “maledetti” dodici chilometri che conducevano dall’aeroporto alla Green zone erano impossibili da controllare per le forze statunitensi, ed i militari la consideravano una prova del fuoco: se sopravvivevi al tragitto eri pronto a tutto. L’asfalto era disseminato di crateri scavati dagli attentatori suicidi che si facevano esplodere e da carcasse di veicoli distrutti. Perfino i tassisti si rifiutavano anche solo di avvicinarsi, e il pericolo era talmente evidente che i civili che volevano raggiungere l’aeroporto transitando a tutta velocità su mezzi blindati erano costretti a sborsare circa 2.400 dollari in contanti.

Adesso la Route è tornata ad essere una moderna autostrada con tanto di punti di ristoro adornati da abbaglianti neon fosforescenti per attrarre gli avventori.