Lavanderia, gerundio latino del verbo lavare (lavandus lavanda lavandum), recepito nella lingua italiana come luogo in cui si portano gli indumenti da lavare. L’uso della lavanderia come la intendiamo oggi, venne introdotta nella società moderna con l’avvento di macchine industrializzate a partire dalla Rivoluzione Industriale. In un arco temporale relativamente breve fino ai nostri giorni, lo sviluppo è stato enorme, eppure nel mondo esistono ancora luoghi dove tale lavoro viene ancora svolto come agli albori della storia dell’umanità.
Scendiamo alla stazione della metro Mahalakshmi - nell’omonimo quartiere - di Mumbai in India, e ad attenderci c’è un caldo da incubo: direzione Dhobi Ghat. L’afa mista all’inquinamento sono soffocanti quanto lo stesso sovrappopolamento. “Attraversate il ponte” ci dice un anziano signore, magrissimo e sdentato, capelli argentati e torso nudo, mentre trascina il suo pesante carico su un carretto più consumato del suo conduttore. Ci incamminiamo a fatica, sopraffatti dall’umidità, e dall’alto ci appare uno spettacolo apocalittico: quella che viene definita la più grande e antica lavanderia umana a cielo aperto del mondo. E’ stata creata alla fine del milleottocento per soddisfare le esigenze dei colonizzatori inglesi, e da allora non ha mai smesso di funzionare. Una città nella città dove lavorano incessantemente migliaia di persone, e alla quale fanno da sfondo i grattacieli dei quartieri eleganti. Colpiscono alla vista le lunghe file di panni stesi ad asciugare sui tetti, gli indumenti, raggruppati per tipologia, che volteggiano e le candide lenzuola, aggrappate al corde sorrette da pali, che si gonfiano come le vele di una grande nave. Curiosamente, non vengono usate mollette per stendere, ma il tutto viene annodato alle corde rispettando una vecchia tradizione.
Scendiamo i vecchi scalini malfermi per immetterci sulla stradina sterrata che porta alla lavanderia.
All’esterno sembra uno slum, i poverissimi, sordidi e malsani quartieri delle megalopoli indiane. Alla porta ci dicono che l’accesso è vietato ai non addetti. Sorridiamo, sapendo bene dove ci troviamo, e infatti per una manciata di rupie un ragazzo si offre per farci da guida nei meandri di questa enclave che sembra racchiudere un proprio mondo. Ci incamminiamo nel dedalo di corridoi e stanze coperti da lamiere, un vero e proprio labirinto.
E’ difficile immaginare come tra queste mura fatiscenti i lavandai (dhobis) possano lavorare e vivere insieme alle loro famiglie dentro minuscole stanzette, oppure dormire direttamente sul pavimento degli stessi corridoi che rappresentano anche il luogo di lavoro. Eppure anche questo è uno dei cuori pulsanti della megalopoli, e un antico mestiere ha saputo adattarsi alle esigenze di una immane collettività con un complesso sistema organizzato, incomprensibilmente tanto caotico quanto efficiente. Infatti per uno spettatore rimane un mistero sapere come vengano riconosciuti i capi e la biancheria prelevati al mattino da abitazioni private, ospedali, hotel, ristoranti, fabbriche, negozi, e riconsegnati con un servizio di biciclette e carretti la sera stessa ai legittimi proprietari. Una vera e propria macchina da lavoro, degna di un apparato industriale, ma costituita soltanto da esseri umani.
Alle lunghe file degli antichi lavatoi di pietra, separati da canali di scolo dell’acqua, lavorano esclusivamente gli uomini poiché questa attività è ritenuta troppo pesante per essere effettuata dalle donne. Ognuno ha una propria postazione che occupa quotidianamente e che spesso si tramanda addirittura di generazione. Al mattino presto i lavoratori possono anche lavarsi al lavatoio, poi inizia il faticoso e incessante lavoro delle braccia che, dopo avere immerso i panni in un acqua saponata, li sbattono con vigore prima di passare al risciacquo in enormi vasche di amido bollente. Segue infine l’asciugatura al sole e la stiratura, con grossi e pesanti ferri da stiro in ferro simili a quelli che venivano utilizzati nelle nostre case fino a metà del secolo scorso.
Dhobi Ghat è una vera e propria istituzione che annovera clienti di ogni tipo e lignaggio, un luogo unico e affascinante, dove però vivono e lavorano persone in condizioni disastrose, un’altra incredibile realtà di questa sorprendente città sempre appoggiata su un fragile equilibrio tra tradizione e modernizzazione.
Nel vocabolario popolare si usa anche parlare di tintoria come lavanderia, assumendo entrambi i termini con la stessa accezione, anche se in realtà la tintura è quel processo di colorazione mediante coloranti chimici o naturali di capi, tessuti e filati, ma anche cuoio e pelli.
Nel mondo capita di trovare anche lavanderie assimilate alle tintorie, proprio perché il processo di smacchiatura e pulitura è appena precedente a quello di tintura, ed entrambi richiedono lo stesso essenziale elemento: l’acqua.
Racchiuse tra le mura degli isolati della Medina di Fez, gli antichi quartieri musulmani della città santa del Marocco, si annidano le concerie famose in tutto il mondo per la professionalità nella tintura di pelli e cuoio. Le origini risalgono al medioevo e, data anche l’alta specializzazione di questi artigiani, l’Unesco ha decretato le concerie come Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Percorriamo le tortuose e intricate viuzze del bazar molto lentamente a causa della grande quantità di persone che stanno affollando le stradine. La nostra guida locale ci indica una bottega dove dall’alto è possibile vedere una conceria. Saliamo le vecchie scale consumate e, arrivati al terzo piano, si apre la vista su una sorprendente scenografia da cui, come spettatori dal loggione di un teatro, assistiamo allo spettacolo delle innumerevoli vasche di tanti colori. L’odore nauseabondo dei coloranti misto a quello del pellame si alza fino al terrazzino in cui ci troviamo. Un tempo venivano usati pigmenti naturali quali l’indaco di alcune piante leguminose per il blu, il fiore di papavero per il rosso, il legno di cedro per il marrone, le foglie di menta per il verde, l’henné dagli arbusti dell’omonima pianta per l’arancione, ma oggi le tinte sono sostituite sempre più frequentemente da coloranti chimici.
Non appagati dallo spettacolo, decidiamo di vedere ancora più da vicino questo “mondo” così distante perfino da quello del “lavoro sommerso” di cui tanto si parla nella nostra società. Scendiamo in strada e, fin troppo facilmente, un asino ricolmo di pelli che sta uscendo da un portone ci indica l’ingresso della tintoria. Anche qui occorre “corrompere” qualcuno per entrare, e dopo aver sborsato pochi dirham ci ritroviamo nell’angusto corridoio che conduce all’arena dove la prima sensazione è quella di entrare in un luogo unico al mondo, tornando indietro nel tempo di qualche secolo. Qui l’olezzo è diventato più nauseante, acre, e neppure i rametti di menta che ci hanno consigliato di strofinare sotto il naso riescono a smorzarlo. I conciatori camminano con agilità sui bordi delle vasche disposte ad alveare; cerchiamo di fare altrettanto per riprenderli da vicino, ma il timore di cadere dentro alle vasche prende il posto della straordinaria naturalezza con cui si muovono loro. Le pelli vengono trattate ancora secondo l’antica tecnica di lavorazione. Per alcuni giorno sono lasciate in ammollo immerse in una soluzione di urina, calce, acqua e sale per detergere il grasso e staccare i peli, e solo successivamente si passa alla tintura vera e propria. A mani nude, immersi nelle vasche di pietra fino al ginocchio, i lavoratori calpestano e girano le pelli per ammorbidirle e fare penetrare i coloranti chimici in profondità. Infine, l’ultimo processo, prima di terminare con l’asciugatura, è quello di spalmatura con l’olio per donare ai nuovi materiali una particolare lucentezza.
Non sempre il lavoro dell’uomo contempla il rispetto per l’umanità. Spesso dietro all’artigianato o ai servizi di cui quotidianamente usufruiamo si celano realtà insospettabili e situazioni inimmaginabili, che trasformano la poesia della vita in “arte di arrangiarsi” per sopravvivere sfruttando le risorse degli antichi mestieri.