Chernobyl è una varietà di erba amara che cresceva in una zona dell’Ucraina settentrionale, ma nel 1193 questa pianta diede il nome alla piccola città che divenne tristemente famosa nel XX secolo per tutt’altro motivo.
La centrale nucleare di Chernobyl, il cui nome ufficiale era Centrale Nucleare Vladimir Lenin, fu costruita a centodieci chilometri di distanza da Kiev, sulle sponde del fiume Prypjat che a quel tempo veniva utilizzato da trentacinque milioni di persone. In questo nefasto luogo l’orologio si è fermato il 26 aprile 1986 alle 01:23 del mattino.
Il disastro avvenne durante una sospensione della produzione di energia, programmata per testare il gruppo di turbine alternative in una situazione in cui la centrale nucleare fosse rimasta senza elettricità. L’intento era quello di sfruttare l’energia cinetica delle turbine generata per inerzia al fine di produrre elettricità prima dell’entrata in funzione dei gruppi elettrogeni di riserva.
A causa di ciò si verificò un surriscaldamento del reattore che, unito ai difetti di progettazione delle barre di controllo, creò un pericoloso aumento di pressione. Il fenomeno generò una tale forza da fare saltare la piastra superiore del reattore, il tetto dell’edificio crollò lasciando il nucleo completamente scoperto, e i detriti radioattivi vennero scaraventati per chilometri.
La conseguenza dell’esplosione del reattore n. 4 di Chernobyl fu di riversare nell’ambiente trecento milioni di Curie, pari alla potenza di deflagrazione di oltre cento bombe atomiche come quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Le prime vittime furono le persone che lavoravano nella sala centrale del reattore, che rimasero sepolti sotto le macerie: uno di loro non fu mai ritrovato.
La stessa sorte toccò ai tecnici che lavoravano nelle sale adiacenti al nucleo, le quali furono invase dalle radiazioni. In diversi morirono subito tra le braccia dei colleghi che li avevano trasportati fuori dall’edificio per le ustioni riportate a causa del vapore.
Il capo tecnico Anatolj Khorgos, trentanove anni, si rese subito conto che il vapore radioattivo aveva iniziato a saturare la sala centrale. Con coraggio si addentrò nella nube radioattiva e chiuse le porte a tenuta stagna, rimanendo cinque ore nel buio, ma salvando così i colleghi dalla combustione e dalle radiazioni. Morì pochi giorni dopo, aveva assorbito settecento Rem, e gli fu assegnata postuma la più importante onorificenza sovietica: la medaglia dell’ordine di Lenin.
Alexander Akimov e Leonid Toptunov erano gli ingegneri responsabili della centrale al momento dell’incidente, e a loro vennero attribuite le cause del disastro. Negli istanti precedenti all’esplosione i due tecnici tentarono di riattivare manualmente il reattore che si era spento, ma oramai i processi di fissione dell’uranio e decadimento dello xeno procedevano vertiginosamente e tutta la struttura era fuori controllo: la catastrofe fu inevitabile e il reattore esplose. Akimov e Toptunov morirono poche settimane dopo a causa dell’esposizione a radiazioni di quarto grado.
Quando il reattore esplose tutti i tecnici del turno di notte avevano la possibilità di scappare, ma scelsero di combattere l’inferno che si era creato: il senso di responsabilità e il dovere professionale ebbero la meglio, e questo divenne il fattore cruciale per il loro destino.
Il 28 aprile l’Agenzia per il Nucleare Svedese lanciò un allarme a causa di un alto livello di radioattività riscontrato, stabilendo che la nube radioattiva aveva origine dall’Ucraina.
Il giorno seguente la stampa sovietica e statunitense pubblicavano la notizia, però mentre i quotidiani sovietici riportavano l’evento con trafiletti a fondo pagina, minimizzando la tragedia, il New York Times gli dedicava l’intera prima pagina, con tanto di cartine geografiche esplicative.
I tentativi del governo sovietico di occultare le informazioni in merito alla portata e ai tremendi effetti dell’incidente di Chernobyl comportarono l’esposizione di milioni di persone a livelli di radiazioni estremamente dannosi, ma incredibilmente a Kiev ebbe comunque luogo la celebrazione del 1° maggio, festa nazionale dei lavoratori.
Soltanto il 6 maggio il Ministro della Sanità dell’Ucraina fece un pubblico annuncio radiofonico nel quale esortava la popolazione a prendere serie misure di protezione, compreso il fatto di rimanere all’aperto il meno possibile.
Il 15 maggio 1986, solamente diciannove giorni dopo l’incidente, Michail Gorbaciov, fece la prima dichiarazione ufficiale dell’incidente a piena pagina sulla Pravda.
Il nuovo sarcofago, che contiene ancora oggi duecento milioni di tonnellate di rifiuti radioattivi e centosessanta milioni di metri cubi di acqua contaminata, è stato battezzato Arco, ha una lunghezza di centosessantadue metri e una volta alta centootto metri.
Nel museo di Chernobyl a Kiev, lettere, articoli, filmati, oggetti e indumenti documentano quella tragica storia congelata nel tempo, e sulle fotografie il simbolo rosso e giallo della radioattività distingue le persone morte durante l’incidente a causa dell’elevata contaminazione.
All’uscita del museo un albero di mele risecchito posto all’interno di una culla vuota simboleggia la frattura del naturale avvicendamento delle generazioni, in una terra un tempo ricchissima che in una sola notte è stata trasformata in una discarica: una terra senza futuro.