Iran, anno musulmano 1439. Il lago di Urumye, oggi riconosciuto dall’Unesco come
riserva della biosfera, era il secondo lago salato più grande dell’Asia con un’estensione di
5.200 chilometri quadrati.
In origine i suoi 140 chilometri di lunghezza per una larghezza di 55 chilometri e una
profondità massima di 16 metri lo rendevano addirittura navigabile, ma negli ultimi venti
anni le sue dimensioni si sono ridotte di circa il 70%.
Tale desertificazione è stata generata dalla costruzione di dighe e canalizzazione di
alcuni dei suoi affluenti verso la città di Tabriz, la seconda città più grande del Paese che,
con l’aumento demografico, necessitava di un maggiore approvvigionamento idrico.
Ma l’abbassamento così vertiginoso delle acque è dovuto anche alla scarsità di piogge e
soprattutto al surriscaldamento che, neppure troppo lentamente, lo stanno prosciugando.
E mentre durante il giorno chilometri di sale abbagliano con la luce del sole, al tramonto il
lago assume una colorazione rosa dovuta all’affiorare di alghe e batteri.
Nel punto più stretto, oggi che la siccità impervia sovrana, lo attraversa un terrapieno
prolungato da un ponte che hanno ridotto notevolmente le distanze tra le città sulle rive
opposte. Ma la divisione rappresenta anche il segno tangibile di una via di non ritorno:
malgrado il governo abbia stanziato un piano di risanamento da cinque miliardi di dollari,
l’immenso specchio di acqua non rivedrà più lo splendore del tempo in cui il condottiero
mongolo Hulagu Khan trasportò sull’isola in mezzo al lago le sue ricchezze per difenderle
dai predoni.
Eppure ancora oggi il lago mantiene un certo fascino ed è meta di un turismo tutto
iraniano, quello dei meno abbienti poiché chi può permetterselo si reca a soggiornare sul
Mar Caspio. Questo è il mare dei poveri, di quelli che si accontentano di campeggiare
sulle pietre a ridosso del terrapieno, e che passeggiano sul sale come se fosse una
battigia di sabbia fine.
Le persone si immergono in mezzo metro di acqua e i bambini fanno castelli di sale e
giocano come se fossero su una splendida spiaggia. C’è timore a lasciarsi andare al
galleggiamento, ma l’acqua è talmente densa che nessun pesce potrebbe sopravvivere.
E’ una balneazione rustica, senza neppure una doccia di acqua dolce per lavare il sale
dalla pelle. Ma i bagnanti sembrano indifferenti anche alla polvere di sale che intossica
occhi e polmoni.
Qualcuno ne approfitta perfino per approntare bar di fortuna su alcuni vecchi furgoni e
guadagnare qualcosa dall’improvvisazione. E le famiglie, arrivate in auto stipate
all’inverosimile, approntano sulle coperte a terra i tipici pic-nic iraniani anche tra i tubi di
scappamento delle auto parcheggiate.
Il paesaggio è quasi spettrale, senza orizzonte perché la luce del cielo è tanto accecante
quanto il riflesso del sale. E’ un paesaggio piatto, spezzato dal colore dei pedalò che
incredibilmente qualcuno noleggia. Però basta allontanarsi di poco dagli schiamazzi per
sentire lo scricchiolio dei passi che crepano la crosta di sale sotto il sole cocente, e
ascoltare il silenzio di un luogo magico.
C’è voglia di divertirsi anche tra questa povera gente, che comunque sorride. Il popolo
iraniano è accogliente, sempre pronto a condividere, e le persone sembrano sentirsi
onorate di farsi fotografare insieme agli stranieri.
Le donne si immergono vestite come impone la religione, ma le ragazze, con un moto di
ribellione lontano da occhi indiscreti, lasciano cadere il velo liberando i capelli. E anche
questo è un simbolo del tempo che sta cambiando, non solo quello climatico, ma anche
quello culturale. Forse anche da questo pontile abbandonato le persone iniziano a
spogliarsi dei vecchi costumi per prendere il largo di una nuova vita. Anche il mare dei
poveri è bagnato dalla speranza.