Siamo giunti fino ai confini del mondo attratti dalla storia delle miniere, dalla contaminazione dell’uomo anche in un parco naturale così estremo come il deserto artico, dunque non possiamo mancare all’appuntamento più affascinante, quello con le vicende e gli avvenimenti della città fantasma di Pyramiden.
Fatta eccezione per la capitale, alle Svalbard non esistono strade asfaltate, dunque siamo costretti a raggiungere la vecchia città abbandonata dai sovietici in battello. In verità esiste anche un eliporto, ma è riservato solo al personale che staziona stagionalmente e per le emergenze.
Sbarchiamo sul vecchio molo dove svetta una enorme gru di carico. Non sono molti i turisti che si avventurano da queste parti, circa cento ogni anno racconta la guida che ci è stata obbligatoriamente assegnata per visitare il vecchio insediamento sovietico. Malgrado la giovane età, Masha è una ex militare russa, e sembra maneggiare bene il fucile che porta a tracolla. Non potrebbe essere altrimenti visti i pericoli costanti di avvistamenti di orsi che si spingono fino alle abitazioni. L’ultimo risale a non più di due settimane fa proprio all’interno del porto, e a lei è stato intimato di rientrare immediatamente mentre conduceva un’altra coppia di turisti all’imbocco della miniera. Forse per non farci sottovalutare il possibile problema, ci rammenta che questi grossi animali sentono gli odori anche a chilometri di distanza, sono capaci di acquattarsi per non essere avvistati e, malgrado la stazza, corrono veloci, poi conclude in modo lapidario il suo avvertimento: “spesso quando lo vediamo è già troppo tardi”. Guardo la landa desolata che mi circonda e, senza proferire commenti superflui, un brivido mi scende giù per la schiena.
Pyramiden deve il suo nome alla caratteristica montagna a forma piramidale che si trova alle sue spalle. Il primo insediamento risale al 1910 da minatori svedesi. La miniera che sovrasta la cittadina ed è visibile da ogni punto dell’abitato, fu venduta nel 1927 alla compagnia mineraria sovietica Russkij Grumant, la quale negli anni ’30 cedette la concessione ad un’altra società della Russia comunista. Distrutta dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, fu ricostruita e ampliata nel periodo post bellico, fino a raggiungere il suo massimo splendore tra il 1960 e il 1980 quando la comunità raggiunse quasi le milletrecento persone. Il crollo dell’URSS nel 1991 con la conseguente penuria di fondi che arrivavano da Mosca, e l’incidente aereo del 1996 in cui, a seguito delle schianto del velivolo charter di ritorno dalla Russia, persero la vita centotrenta abitanti, misero seriamente in ginocchio la sopravvivenza dell’insediamento, iniziando un decadimento che si protrasse fino al 1998, anno in cui gli ultimi residenti lasciarono le loro abitazioni.
Scendiamo nell’unica struttura in cui è possibile pernottare, l’hotel Tulip, ricavato da un ex “casermone” ad uso abitativo. L’hotel è totalmente in stile sovietico, e questo ci diverte perché sembra davvero di fare un tuffo nel passato. Siamo gli unici ospiti e la domanda ci sorge spontanea: perché ristrutturare un albergo così grande se sono così pochi i visitatori in questo remoto angolo di mondo?
Una volpe artica che passeggia indisturbata sulle pipeline ci dà il benvenuto. Un edificio sembra essere divenuto l’abitazione di migliaia di gabbiani stridenti. Il grido riecheggia minaccioso tra i palazzi, e scansiamo attentamente il marciapiede sottostante ricoperto di guano. Ci incamminiamo in salita per il viale centrale dove un tempo veniva coltivata una distesa di tulipani esclusivamente ad uso ornamentale. In cima al viale, giusto per rammentare la grande madre patria, campeggia ancora una statua di Lenin in pietra la cui sagoma, dall’alto, si staglia in modo spettacolare sul ghiacciaio che si trova dal lato opposto della baia. Poi con l’aiuto di Masha iniziamo la visita interna di diversi edifici che costituivano il cuore pulsante del villaggio minerario. Le aule scolastiche con i dormitori per fare riposare i bambini nel pomeriggio. La grande mensa con annesse le cucine dove sono ancora presenti i fornelli e i macchinari per preparare ingenti quantità di pasti. L’immancabile piscina, onnipresente in qualsiasi insediamento sovietico, e il centro ricreativo e sportivo, altrettanto importante per la cultura sovietica, dove trovano posto una palestra, una sala per il cinema e il teatro, e una stanza per le prove musicali dove sono stati lasciati alcuni strumenti musicali.
Nella città mineraria esistevano appartamenti per famiglie, per uomini soli e per donne sole, tutti rigorosamente in edifici differenti al fine di evitare, per quanto possibile, ogni tipo di promiscuità. Gli appartamenti sono davvero ristretti, più piccoli di una cella: una stanza per dormire e un bagno. In alcuni troviamo ancora qualche oggetto del quotidiano, ma ciò che ci colpisce sono soprattutto i ritagli di riviste affissi nelle ante degli armadi, che danno uno spaccato dei miti e dei desideri dell’epoca.
Proseguiamo la visita degli edifici dirigendoci verso la base della montagna dove si trovavano gli uffici della compagnia mineraria. Ogni ambiente è rivestito di legno per mantenere il calore e, oltre alle sale riunione, gli uffici amministrativi e i gabinetti di ricerca, rimaniamo sorpresi nella stanza di controllo perché è simile in tutto a quella di una centrale nucleare.
Arrivati a questo punto ricordiamo alla nostra guida la promessa di portarci a visitare l’edificio del KGB, e Masha non si sottrae dal condurci in uno dei meandri della nomenclatura. Visto il progressivo incremento della comunità di Pyramiden, Mosca decise di istituire una piccola sede dell’agenzia per la sicurezza al fine di controllare direttamente sul territorio i movimenti e le attività della comunità.
Stiamo entrando in un edificio in cui un tempo era assolutamente proibito anche solo avvicinarsi. Saliamo le scale in silenzio, pensando che in quegli anni se un civile percorreva quei corridoi non era certo per buoni motivi. Mi siedo ad una scrivania sui cui è posta una vecchia macchina da scrivere a martelletto, e cerco invano di immaginare quale austero e burocratico documento avrebbe potuto battere un solerte funzionario. In un grande armadio da parete a scomparsa scopriamo dei dossier dattiloscritti con tanto di foto tessera allegata: ogni residente era scrupolosamente schedato. Notiamo su una scrivania delle vecchie foto in bianco e nero, arruffate e sgualcite dal tempo. Le immagini ritraggono merci di ogni genere e Masha che conosce un po’ la storia di questo luogo, ci racconta che qualsiasi cosa uscisse ed entrasse a Pyramiden era meticolosamente annotata e catalogata in modo da esaminare capillarmente la popolazione. Poi la nostra guida ci indica una massiccia porta blindata che custodisce una piccola stanza dove troviamo una imponente cassaforte e una stufa che, all’occorrenza, serviva per bruciare i documenti. Tutto doveva rimanere sotto un controllo assoluto, ma in caso di necessità qualsiasi prova doveva essere distrutta.
Masha ci dice che un paio di chilometri fuori Pyramiden c’è una piccola casa fatta di bottiglie di vetro costruita per divertimento dai minatori. Siamo incuriositi e lei non si lascia pregare, imbraccia il fucile che portava a tracolla, giusto per essere pronta alla minaccia dell’ordo, e si incammina sul pendio ad ovest della miniera. Gli effetti di luce che filtrano all’interno sono veramente carini e, seduto su una panca, mi abbandono a riflettere sulle condizioni di vita dei minatori in quel periodo. Dopo tutto non mi stupisce che, dopo un intero turno di lavoro passato sottoterra tra il freddo e la fuliggine di carbone, lo “sport” locale per questi uomini fosse quello di bere birra e vodka fino allo sfinimento per non pensare al giorno successivo.
Percorriamo i fatiscenti camminamenti sopraelevati e coperti che attraversavano quotidianamente i minatori. In parte sono crollati, quasi a simboleggiare il peso immane e l’angoscia che ogni giorno transitava su queste assi di legno. Concludiamo così il nostro giro, spingendoci fino alla base della montagna, proprio dove partiva l’impressionante ripida salita del tunnel che conduceva i minatori all’imbocco della miniera prima di calarsi nelle viscere della terra.
Stremati la sera in hotel ci concediamo una lauta cena a base di borsch, pirozhki e pelmeni, innaffiata da un’ottima vodka russa.