Mossul, ci alziamo tranquillamente alle sette per andare a fare un’ottima colazione a base di kahei, una specie di piadina dolce ripiena di crema, e tè bollente. Gli iracheni consumano ettolitri di tè al giorno, è la bevanda nazionale e ovunque si vada viene generosamente offerto come se fosse un simbolo di accoglienza. È molto forte e scuro, ma noi lo apprezziamo molto.

La storia antica si intreccia e si fonde sempre con quella moderna, e l’uomo ne è il risultato. Qui l’attualità trova indubbiamente conferma di questo processo. E come è successo molte altre volte è proprio la mano dell’uomo a creare un’altra frattura indelebile tra il recente passato e i millenni che lo hanno preceduto. Francamente avremmo preferito non vederne le tragiche conseguenze e visitare la città sotto un’altra veste.

Non è stato un terremoto quello che ha scosso le fondamenta del quartiere ad ovest del centro abitato. Oggi la città vecchia di Mosul, come viene ancora abitualmente appellata, è un museo a cielo aperto dell’orrore e dell’errore umano. Il cielo, piatto, insignificante, contrasta con le rovine, che invece di significato ne mostrano così tanto. Quello che hanno risparmiato i secoli resistendo ai segni del tempo, lo ha distrutto la scelleratezza dell’uomo, rendendolo un agglomerato di macerie. I nostri passi sono seguiti solo dal silenzio. Non ci sono parole per descrivere questo abominio. Le pietre sembrano ancora agonizzanti, come ferite fresche di un nemico appostato dietro l’angolo che potrebbe spuntare all’improvviso imbracciando un kalashnikov.

Scattiamo molte fotografie, che non saranno ritoccate. Non ne hanno bisogno, sono già un incubo inimmaginabile quanto immutabile. Negli stretti vicoli in cui i bambini chiassosi si rincorrevano schivando le donne che andavano al bazar, mentre i vecchi erano intenti a passeggiare insieme ai loro ricordi, ora regna la desolazione e siamo costretti a scavalcare detriti, coperte e indumenti. Gli antichi portali di marmo verde striato sono segnati dal simbolo che indicava dove vivevano famiglie cristiane da ricattare per non essere uccise, salvo poi massacrarle lo stesso. Ciò che non ha eroso il tempo lo ha imbrattato la disumanità, senza alcuna presunzione di innocenza.

Il filo spinato adagiato un po’ ovunque non era che un magro deterrente per i nuovi invasori di questa terra già sufficientemente martoriata. E ora giace inerme e arrugginito come un reperto archeologico.

La battaglia contro l’ISIS, durata nove mesi, si è conclusa a luglio del 2017. Qui hanno perso la vita circa undicimila persone. Centinaia di miglia di civili sono fuggiti, perdendo tutto ciò che possedevano. L’Unesco ha iniziato la ricostruzione, ma ci vorranno anni prima che il sole possa tornare a splendere tra queste strade.

Uscendo dal quartiere ci immettiamo direttamente nell’adiacente mercato del pesce. Commercianti ed acquirenti sembrano non avere tempo neppure per soffermarsi un attimo ad ascoltare lo scorrere della vita, certe volte monotono, altre frenetico. Tutti sono così indaffarati che gli strilli dei venditori per richiamare l’attenzione degli acquirenti contrastano nettamente con la realtà che abbiamo appena esplorato. Eppure non sono trascorsi molti anni dalla catastrofe che si è abbattuta su questa gente, ma forse lo spirito di sopravvivenza è più tenace e inveterato in questo popolo così abituato alle guerre e alle invasioni. Anche qui siamo gli unici stranieri e un commerciante particolarmente cortese ci trattiene a fare salotto proprio davanti al suo banco di carpe giganti, e invia il figlioletto più piccolo a comprare l’ennesimo tè. A vedere sorridere le persone viene da pensare che un po’ di fatalismo sia un sano conforto per l’animo umano che, anche nei momenti di maggiore disperazione, non si rassegna mai al dolore e alla sofferenza.

Attraversare il Tigri, spostandoci dalla sponda occidentale a quella orientale, per arrivare a Ninive.

Nella zona sono state ritrovate tracce di insediamenti preistorici, ma la città raggiunse il suo massimo splendore nel VII secolo a.C. sotto il regno assiro di cui era la capitale. Le mura arrivarono a raggiungere un’estensione di dodici chilometri, ed era così famosa nell’antichità tanto da essere ampiamente citata nella Bibbia. Purtroppo oggi non resta davvero niente di sostanzialmente interessante da vedere. Non rimane che una porzione delle mura e una delle porte di ingresso alla città che, ricostruita da Saddam, è stata nuovamente distrutta dai miliziani dello Stato Islamico. Paradossalmente sembra una fortuna che tanti reperti si trovino seminati nei musei di tutto il mondo, perché differentemente sarebbero stati venduti dall’ISIS sul mercato nero dell’arte.