In mattinata arriviamo al confine con il Kurdistan iracheno e abbiamo davvero l’impressione di essere ad un confine, un confine etnico, culturale e perfino linguistico. Anche la bandiera è differente, e la milizia Peshmerga ha una mimetica diversa da quella del resto dell’Iraq. Eppure in gran parte i curdi sono musulmani sunniti, e la regione, malgrado l’autonomia federale, l’indipendenza dal 1911 ed una propria Costituzione dal 2005, fa ancora parte dell’Iraq.
In frontiera rimaniamo bloccati per quasi due ore, ma la ragione non dipende dai nostri passaporti stranieri, quanto dal fatto che l’autista e la guida sono iracheni, e a nulla vale spiegare che ci stanno semplicemente accompagnando.
Finalmente ripartiamo e la prima cosa che ci colpisce è il paesaggio: verdi colline hanno preso il posto del polveroso deserto. Dopo la lunga fermata forzata in frontiera non siamo certo in anticipo sulla tabella di marcia, ma Hasan, l’autista “belli capelli”, è irremovibile sul fatto che vuole fare lavare la jeep, quasi fosse un’onta transitare su queste strade con del fango sugli sportelli, e ci costringe a perdere un’altra ora.
Ci inoltriamo sulle montagne per esplorare alcune bellezze paesaggistiche e, mentre attraversiamo spettacolari gole e profondi canyon, ripenso alla “questione curda”, alle vicende che hanno martoriato questo popolo, diviso in cinque Stati, Iraq, Iran, Armenia, Siria e Turchia. Da oltre un secolo i curdi combattono per divenire un Paese autarchico, il Kurdistan, una richiesta che gli viene sistematicamente negata. Intanto questo popolo continua a difendere una terra che a ragione viene considerata una nazione senza Stato, proprio come è successo quando l’ISIS ha cercato di sottometterli o quando Saddam ha tentato di sterminarli con armi chimiche,
Facciamo tappa al tempio yazida di Lalish dove la nostra guida ci comunica con sommo rammarico che per entrare nel sito dovremo lasciare le scarpe nella jeep. La cosa non ci aggrada perché in questa valle fa molto freddo e dovremo camminare scalzi sulla pietra sia all’esterno, sia all’interno dei vari edifici. In compenso notiamo subito che tutte le strade sono continuamente spazzate con granate di saggina da una schiera di persone addette alla rituale pulizia.
Gli Yazidi sono una comunità religiosa di etnia curda stanziata essenzialmente in questa zona, anche se una minoranza si è spostata in Europa. La religione, avvolta in una sorta di mistero, professa la credenza in un Dio primordiale e creatore, poi dissoltosi in ogni cosa, che si manifesta in sette angeli, tra i quali il più venerato è Melek Ta’us dalle sembianze di pavone. L’attuale forma dello Yazidismo è il risultato della riforma dello sceicco Adi Hakkari, vissuto nell’XI secolo e qui sepolto. Scopriamo la sua tomba in marmo bianco all’interno di una grotta, mentre in altri anfratti troviamo simboli e persone che effettuano rituali incomprensibili ai nostri occhi. Anche in tutta questa area non è ammesso fotografare, ma ci è consentito di utilizzare il cellulare perché non siamo nel periodo dei sei giorni santi in cui qui si riversano migliaia di fedeli in un pellegrinaggio obbligatorio durante l’arco della loro vita. Quando torniamo al parcheggio abbiamo i piedi gelati e massacrati, ma forse ciò che maggiormente ci dispiace è di non avere molte informazioni su questa comunità così chiusa agli estranei tanto da non poterli frequentare, neppure per fare proselitismo.
È già pomeriggio inoltrato quando arriviamo nella capitale Arbil, e lo sfavillio di luci, di negozi e palazzi moderni ci restituisce l’immagine di una città moderna che non ci aspettavamo.
Ci dirigiamo immediatamente alla Cittadella, patrimonio dal 2014 dell’Unesco che ancora adesso sta provvedendo alla ricostruzione e conservazione. L’imponente profilo che sovrasta la città da un’altura artificiale è la testimonianza della plurimillenaria presenza abitativa dell’uomo in questa zona, era un crocevia importante verso le grandi rotte commerciali che dalla Mesopotamia conducevano all’Anatolia, alla Siria e all’altopiano iranico a partire dal 4500 a.C.
Il bazar sembra non dormire mai e la sera acquisto su un banco di strada delle banconote da 10.000 dinari con la raffigurazione di Saddam Hussein. Dopo la caduta del rais sono fuori corso, adatte solo per essere rivendute ai turisti ad una cifra dieci volte superiore al valore che avevano. Poi in un negozio scelgo con cura due kefiah, una nera e una rossa, entrambe su trama bianca. Chissà se le indosserò mai, però mi piacciono molto e non resisto a contrattare il prezzo.
Vediamo così tanto, e studiamo altrettanto, prima e dopo ogni viaggio, eppure molte cose ci sfuggono sempre. E non è solo un’impressione. Ad ogni risposta sorgono sempre altre domande, come un albero che germoglia crescendo, o una spirale senza fine. E la curiosità, quasi fosse una sfida, ci spinge irrimediabilmente verso nuove avventure per arricchire e approfondire la conoscenza.
Ripensiamo alle splendide opere edificate nell’antichità, a Babilonia, a Ctesifonte, e poi alla distruzione di Mossul, e una domanda ci sorge spontanea: cosa lasceremo noi alle generazioni future?
L’Iraq ci ha affascinato con la sua storia antica e recente. Dentro di noi avvertiamo un senso di incompletezze e prima del decollo gli promettiamo di tornare a visitarlo.