Sofya, settantotto anni, ci accoglie nella sua casa con timidezza: non è abituata ai turisti.
Vive sola perché le due figlie fanno una il medico e l’altra la bancaria a Kiev, ma lei non ama la città e, malgrado tutto, preferisce rimanere nel piccolo villaggio in cui è nata.
La modesta casa di legno è curata, e notiamo subito che il bagno è all’esterno, in fondo all’orto, e un brivido scende lungo la schiena al pensiero della doccia con il secchio quando in inverno qui cade la neve.
Sofya ha preparato un ricco pranzo per gli inusuali ospiti a base di carne e verdure del suo orto, e noi ci sediamo a tavola con un certo timore, ma lei è così carina ed orgogliosa di offrirci ciò che produce personalmente, che non possiamo certo deluderla. E poi speriamo che la vodka che distilla personalmente nei boccioni che fanno bella mostra sui ripiani della dispensa, provvederà a disinfettarci.
A tavola ci racconta che al momento dell’incidente vivevano nel villaggio di Kupovate circa cinquecento persone. Sofya a quel tempo era la capo villaggio, quindi fu affidato a lei il compito di preparare in tre giorni l’evacuazione che avvenne il 5 maggio 1986.
I contadini dovettero abbandonare gli animali, ma furono fortunati perché in parte vennero risarciti, e le loro case non furono abbattute grazie al fatto che nel villaggio le radiazioni non superavano i duecentoventi Microsievert per ora.
Ad ottobre dell’anno successivo lei rientrò nella sua casa, seguita da altre centoventisei persone alle quali fu permesso di tornare solo perché non avevano figli piccoli. Oggi sono rimasti una quindicina di abitanti, gli altri sono morti e nessuno vuole venire ad abitare qui.
Dopo un anno dall’incidente il pesante conto finale stimava che il 10% circa dell’Ucraina era stato contaminato, duemiladuecento centri urbani evacuati e centosessantamila persone tra Ucraina e Bielorussia costrette ad abbandonare le loro case, stravolgendo per sempre la propria esistenza.
Sofya è una dei millecinquecento coloni per autonoma scelta chiamati Samosély, ovvero “residenti illegali” che tornarono, qualcuno a piedi tanta era la paura, nella zona di esclusione; oggi è rimasto solo un manipolo di circa centocinquanta irriducibili anziani.
Per quanto possa sembrare assurda, la loro scelta è stata consapevole, ritenendo più pericoloso essere sradicati dalla propria terra e ritrovarsi in un palazzone di Kiev, additati come gli untori di Chernobyl e destinati alla morte civile.
Nel 1992 il territorio dell’Ucraina fu proclamato “zona di disastro ecologico”, e ultimamente il governo ha dichiarato che dopo la morte dei Samosèly il territorio dovrà rimanere disabitato per mille anni.