Nel 1986 il reattore n. 4 era uno dei quarantasei reattori nelle cinque centrali nucleari in funzione nell’Unione Sovietica. Apparteneva alla serie RBMK 1000, detto anche reattore a canale ad alta potenza, ed era stato progettato in URSS per essere costruito velocemente ed avere una facile manutenzione.
Il professor Aleksandrov, responsabile scientifico del progetto, era riuscito a convincere i leaders sovietici che i reattori di questo tipo erano assolutamente affidabili e sicuri, tanto da poter essere anche installati sulla Piazza Rossa a Mosca.
L’RBMK 1000 è un reattore a uranio-grafite, che utilizza neutroni termici per produrre energia. La grafite serve da moderatore e l’acqua occorre per generare il vapore che permette alle turbine di produrre energia elettrica, il tutto in un sistema a circuito chiuso.
Questo tipo di reattore può essere rifornito di combustibile mentre è in funzione. Il nucleo è formato da un cilindro di circa dodici metri di diametro e sette metri di altezza, dal perimetro ottagonale, ed è perforato da milleseicentosessantuno canali di pressione verticali. Ogni canale contiene diciotto barre di uranio arricchito, quindi a pieno carico il reattore ha la capacità di centonovanta tonnellate di uranio.
Le duecentoundici barre di grafite contenute nel nucleo tengono sotto controllo l’energia prodotta dal reattore stesso, assorbendo i neutroni. Quando tutte le barre sono inserite nel nucleo, il reattore si spenge, e quando le barre si alzano inizia la cosiddetta reazione a catena, ovvero la fissione nucleare degli atomi di uranio. Più in alto vengono posizionate le barre, e maggiore è la potenza del reattore.
Due piastre di protezione sono poste sopra e sotto il nucleo; quella superiore pesa duemila tonnellate, ha un diametro di diciassette metri e uno spessore di tre metri, ed è assemblata con duemila cubi di piombo. Sotto il nucleo c’è una vasca per il raffreddamento.
L’acqua spinta dalle pompe passa attraverso i canali di pressione che contengono l’uranio, scaldandosi fino all’ebollizione. A causa dell’intenso calore, il vapore e l’acqua escono dal nucleo per raggiungere le turbine nella sala motori le quali ruotando producono l’energia elettrica.
Dopo un processo di condensazione il vapore ritorna al reattore in forma liquida e il ciclo di circolazione dell’acqua ricomincia.
A Chernobyl il primo reattore era stato inaugurato nel 1977, e il complesso, che doveva arrivare a quattordici reattori, sarebbe dovuto divenire il più grande d’Europa, con l’inaugurazione di un nuovo impianto ogni due anni.
Al momento dell’incidente, classificato come disastro di livello 7, il più elevato nella scala internazionale, stava per entrare in funzione il reattore n. 5, ed erano già state gettate le basi per il n. 6.
Tutte le informazioni riguardo al disastro furono classificate come segrete, confidenziali, e per solo uso ufficiale. Le tredici commissioni d’inchiesta istituite per indagare sull’accaduto giunsero tutte alla fine dell’estate alle stesse conclusioni: l’esplosione del reattore era stata causata da pericolose ed errate tecniche costruttive che non rispettavano gli standard di sicurezza internazionali.
I sovietici tuttavia dichiararono che non potevano essere stati commessi errori di costruzione e quindi si era trattato di un errore umano. Scaricarono le colpe su sette tecnici, e il processo a porte chiuse svoltosi a Chernobyl un anno dopo, li condannò tutti al carcere per avere causato la catastrofe.
Nel reattore n. 3 lavoravano circa tremila persone, ed oggi è visitabile con uno speciale permesso, scortati da una guida e controllati a vista da un militare perché la permanenza in ogni ambiente è rigorosamente temporizzata.
Percorrendo il chilometro del freddo Corridoio d’Oro che collega il reattore n. 3 al n. 4, un brivido scende giù per la schiena al pensiero della concitazione dei tecnici che in quella fatidica notte correvano freneticamente avanti e indietro.
“No pictures in the corridor, please” continua a salmodiare Julia, la rigorosa guida, in tono perentorio mentre racconta che niente è cambiato, tranne il pavimento che è stato sostituito perché giudicato troppo contaminato.
Le strutture di rifugio possono contenere settecento persone e sono dotate di una riserva di acqua potabile e filtri per tre giorni; si tratta di stanze spartane dotate di brande, nelle quali è obbligatorio mantenere la massima calma, e di una sala operativa in contatto con l’esterno.
Nella sala delle turbine, quella maggiormente devastata quando i detriti dell’esplosione del reattore n. 4 arrivarono sul tetto, l’energia nucleare si trasforma in energia elettrica.
Un muro di contenimento in cemento armato e piombo isola il reattore n. 4 dal Corridoio d’Oro; qui i contatori Geiger iniziano a suonare all’impazzata e possiamo rimanere solo pochissimi minuti.
Una lapide sul muro commemora la memoria di Valery Khodemchuk, un tecnico del turno di notte che rimase sepolto sotto le macerie e che non è mai più stato ritrovato.
Ci dirigiamo nella gelida sala di controllo del reattore n. 3, asettica perfino nei colori e identica a quella che adesso si trova sotto il sarcofago.
Da questa grande sala i tecnici manovravano tutto l’impianto, ed è facile immaginare le lancette che segnalavano il funzionamento, le luci che si accendevano ad ogni controllo e i telefoni incandescenti di quella fatidica notte.