La storia delle Svalbard sembra inevitabilmente legata al carbone e, visto che siamo giunti fino a qui, decidiamo di andare a visitare una miniera ancora pienamente attiva. Così ci spostiamo a Barentsburg, il secondo insediamento più popoloso dell’arcipelago, circa quattrocento persone.

Fondata nel 1920 da una compagnia carbonifera olandese che la battezzò derivando il nome dallo scopritore delle Svalbard, fu ceduta, insieme ai diritti di scavo, già negli anni ’30 ad un’altra compagnia sovietica.

La popolazione e composta esclusivamente da russi e ucraini che si stabiliscono in questo remoto abitato dell’Artico soltanto per il lavoro di minatore ben remunerato. In diversi hanno addirittura trapiantato l’intera famiglia in cerca di benessere, ma oramai è solo una leggenda quella che con i guadagni di pochi anni di sacrificio era possibile comprare un appartamento in centro a Mosca. Oggi la realtà è ben diversa e di quel mito rimane solo il quotidiano duro lavoro nella miniera.

I casermoni in stile brutalista fanno da sfondo ad una deliziosa chiesa ortodossa in legno, e l’immancabile busto di Lenin che getta lo sguardo sulla baia ci rammenta che questo è un pezzo di Russia fuori dai confini nazionali. E allora come sottrarsi dal provare il cocktail dall’esplicito nome See You Tomorrow, Maybe. La cameriera del ristorante del nostro hotel ci racconta la bizzarra storia per la quale ai russi piace creare un cocktail con la stessa gradazione alcolica del parallelo geografico in cui si trovano. Qui siamo al 78° parallelo e la miscela dai colori sgargianti contribuisce non poco a mandarci a dormire presto.

Dasha, la simpatica amica moscovita conosciuta in hotel, ci procura l’accesso alla miniera. Purtroppo all’ingresso scopriamo che è assolutamente vietato fotografare nei tunnel e siamo costretti a lasciare l’attrezzatura in un armadietto. La procedura di preparazione ci impegna molto perché, già impacciati da un pesante abbigliamento invernale, siamo costretti ad indossare tuta, passamontagna, guanti, maschera, caschetto con lampada un cinturone a cui è agganciata una radio e un rilevatore di gas. Nello spogliatoio c’è un caldo asfissiante e così bardati speriamo solo che faccia davvero freddo nei meandri della terra.

Veniamo prelevati dalla stanza da Igor, l’ingegnere russo che ci è stato assegnato per la visita. Dopo aver varcato alcune porte di sbarramento per l’aria che ad ogni passaggio ci gettano in una vorticosa corrente sempre più fredda, ci inoltriamo nella miniera. Gli umidi tunnel a tratti sono malamente illuminati e frequentemente rischiamo di inciampare nei binari  dove passano i carrelli che trasportano il carbone. Igor tiene molto a sottolineare la sicurezza della miniera, e nello slargo di un tunnel ci soffermiamo su una serie di macchinari controllati da computer che sono in grado di allertare i lavoratori in caso di fughe di gas o crolli improvvisi. Eppure, malgrado si prodighi solertemente nel tentativo di convincerci, noi rimaniamo scettici e convinti che il minimo incidente procuri il massimo rischio quando ci si trova a lavorare sottoterra in condizioni così disagevoli ed estenuanti.

Dopo un paio di ore rivediamo la luce del giorno e Igor, che ha intuito il mio rammarico nel non poter documentare con le immagini quello che abbiamo visto, mi concede di riappropriarmi della macchina fotografica e, in via del tutto eccezionale, di tornare a fotografare il nodo di scambio dei carrelli che trasportano il carbone.

All’uscita incrociamo due minatori che stanno risalendo dalle viscere della terra. Raman e Vladimir hanno terminato da poco il loro turno. Sul volto portano i segni del duro lavoro e dell’ambiente che hanno appena lasciato, una maschera inequivocabile del massacrante mestiere che svolgono. In assenza di elementi naturali che scandiscono le attività all’aria aperta, nel sottosuolo il tempo viene spesso misurato in quantità di lavoro svolto, ma oggi, contrariamente al passato, le norme impongono una permanenza nei tunnel non superiore alle normali otto ore. I due uomini sembrano timidi, come se la solitudine a cui sono abituati li intimorisse davanti ad altre persone. Gli chiedo il permesso di scattare due foto, poi mi avvicino e gli porgo la mano, le loro sono nere come il carbone che hanno maneggiato e per un attimo si ritraggono. Ci guardiamo negli occhi e alla fine anche loro cedono all’atto di fratellanza umana e, sorridenti, ci stringiamo le mani.

C’è qualcosa di indefinito che, al di là degli occhi, riempie lo spirito. Le Svalbard sembrano davvero l’ultima frontiera, dove è facile innamorarsi del silenzio quanto della natura selvaggia e incontaminata.