La torrenziale pioggia che paralizza ogni volta la capitale, ci costringe nostro malgrado a rifugiarci in un luogo al coperto, e non abbiamo dubbi a scegliere di trascorrere del tempo al Museo nazionale iracheno, chiuso nel 1991 a seguito dello scoppio della Prima guerra del golfo e riaperto solo nel 2015. Malgrado le guide locali non sponsorizzino mai questo museo, le magnifiche collezioni ci tengono piacevolmente al riparo dalle intemperie per almeno quattro ore, ma in realtà i reperti meriterebbero anche uno studio più approfondito. Purtroppo molti oggetti sono stati trafugati con l’arrivo delle truppe militari durante la Seconda guerra del golfo, quando il museo venne assaltato, devastato e depredato di tutto ciò che era trasportabile e vendibile.
È strano che la traduzione dall’arabo di Baghdad significhi “città della pace”. Nata come città califfale degli Abbasidi, fu dominata dai Selgiuchidi, saccheggiata dai Mongoli, conquistata dagli Ottomani, occupata dai Britannici e infine, dopo una formale indipendenza sotto la dittatura di Saddam Hussein, invasa dalla coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti.
All’enorme monumento Al-Sgaeed, il memoriale ai caduti della guerra Iraq-Iran, ci colpisce un piccolo uragano che impedisce perfino l’apertura agli inservienti, e non rimane che guardarlo da lontano. Inaugurato nel 1983, ha un diametro di centonovanta metri e le due mezze cupole, che sembrano gocce a simboleggiare le lacrime, sono completamente ricoperte di piastrelle turchesi.
Nel frattempo la pioggia ha trasformato le strade in fiumi. Non abbiamo mai visto una cosa simile in una città, con l’acqua che arriva fino a metà degli sportelli delle auto. Adesso comprendiamo anche il motivo per cui ci sono alcuni marciapiedi alti anche mezzo metro. Attraversare un incrocio è diventato come guadare un torrente, mentre i vigili indefessi continuano a fischiare nella calca del traffico selvaggio, imperterriti che nessuno li consideri. Rimaniamo imbottigliati per tre ore, così ne approfittiamo per leggere e aggiornare i nostri taccuini di viaggio.
Finalmente il tempo concede una tregua e il traffico più rilassato inizia a defluire. Riprendiamo il cammino, cercando di scansare le enormi pozze d’acqua che si sono create, nello storico quartiere delle librerie dove studiosi e negozianti vengono a rifornirsi da tutto l’Iraq. Ad un certo punto Sajad ci chiede di pazientare cinque minuti mentre entra in un anonimo edificio. Quando esce ha le lacrime agli occhi e un passaporto in mano. Gli chiediamo cosa sia successo e lui con la voce soffocata dall’emozione ci risponde: “Non potete capire, dopo tanti anni che lo stavo chiedendo, finalmente mi è stato concesso di uscire dal Paese e andare anche io a vedere un po’ di mondo”. È vero, siamo così abituati a muoverci liberamente che non possiamo capire, ma possiamo immaginare il senso di impotenza della reclusione, e allora, davanti alla sua felicità, decidiamo di andare a festeggiare tutti insieme nella più antica caffetteria di Baghdad sorseggiando l’ennesimo te bollente, ammirando le bellissime foto ingiallite dei tempi andati che tappezzano le pareti.
Le strade iniziano a sgombrarsi, così siamo incoraggiati a raggiungere la moschea sufi che prende il nome dal mistico dell’VIII secolo Ma’ruf al-Karkhi. Nella grande sala di preghiera ci accoglie un maestro che non solo stavolta ci permette di fotografare, ma si concede con soddisfazione anche a posare per un ritratto. Nella sala sul retro scopriamo il mausoleo del santo racchiuso dalla solita cancellata. Secondo gli abitanti di Baghdad questa tomba è fonte di guarigione per chi la venera. Inginocchiata sui tappeti c’è una donna in preghiera, talmente assorta da non accorgersi neppure della nostra presenza. È incurante perfino della borsa e del sacchetto della spesa abbandonati a terra, tiene i palmi delle mani rivolti in alto, come se reggesse una coppa, offerta in dono per ringraziare della pietà che sta chiedendo.
Visto che il meteo ancora ce lo concede andiamo a visitare il mausoleo ottagonale del 1199 di Sitta Zubayda, una principessa abbaside, protagonista di molti racconti delle Mille e una Notte, che fece scavare una serie di pozzi e cisterne per i pellegrini diretti alla Mecca. Siamo nella zona cimiteriale del quartiere al-Karkh e per accedere all’imponente struttura funeraria con cupola conica dobbiamo disturbare il guardiano, il quale, non avendo voglia di essere importunato nel suo pacifico oziare, invia i suoi figlioletti ad aprire il portone. Le scale sono praticamente diroccate e per salire fatichiamo non poco, ma come sempre la curiosità ha pochi freni e rimpianti, e inevitabilmente si ingigantisce davanti agli ostacoli, e ai rifiuti, proprio come accade ai bambini davanti ai divieti.
Dopo cena l’amico iracheno ci porta in piazza Firdaus dove nel 2003 fu abbattuta la statua di Saddam Hussein. Nonostante quello non fosse un simbolo particolarmente significativo del regime. I giornali e le televisioni di tutto il mondo diedero un ampio risvolto all’episodio quale successo della campagna militare degli Stati Uniti. Oggi al posto della statua c’è una semplice fontana la cui acqua sembra avere cancellato qualsiasi traccia di gloria.
Poi Sajad ci conduce nella gigantesca piazza Tahrir, e con una sorta di malinconia inizia a raccontarci i tragici fatti avvenuti nel 2019. La piazza era stata assunta come simbolo di una protesta che si era scatenata in tutto il Paese a seguito dello stillicidio senza continuità di sorta che il governo stava operando nei confronti dei giovani frustrati dall’insano e corrotto sistema politico. Con un po’ di orgoglio Sajad ci dice che anche lui ha partecipato alla protesta, insieme a migliaia di studenti, uomini e donne di qualsiasi estrazione tutti uniti in un’unica voce. La manifestazione era nata per denunciare la totale assenza di diritti civili provocato da un potere settario che amplificava soltanto diseguaglianze sociali ed economiche, per altro assoggettandosi servilmente ad interferenze esterne.
Questo avevano lasciato gli Stati Uniti: un Paese sfasciato in balia della politica e della religione. Il ricorso alla forza da parte della polizia con candelotti lacrimogeni e proiettili sparati all’altezza del corpo, lasciò sulla piazza nell’arco di un anno i corpi di circa settecentocinquanta manifestanti. Le autorità promisero inchieste che non hanno portato a incriminazioni, e un museo della rivoluzione al posto del presidio autogestito, ultima trovata fasulla per fingere di dare un ruolo alla protesta nella ricostruzione del nuovo Iraq. Ciò che resta, e che nessuno ha il coraggio di cancellare, sono i murales lungo il tunnel che passa sotto la piazza, i dipinti e le scritte di chi ha vissuto quell’incubo e chiedeva aiuto.