Da Nasiriyya prendiamo l’unica strada per Ur attraversando l’aridità eterna del deserto. Il cielo confina con la terra, in un orizzonte etereo sfumato dalla leggera foschia. I posti di blocco si sono intensificati e ad ognuno siamo costretti a mostrare i passaporti che vengono immancabilmente fotografati con il cellulare. Cadenzate come i piloni della luce, che comunque qui non esistono, si materializzano ai bordi della strada le camionette con i militari appostati alle mitragliatrici. Sajad ci assicura che è normale perché durante il tragitto incontreremo un carcere di massima sicurezza dove sono detenuti attentatori ed estremisti, oltre ai peggiori criminali del Paese.

Si fa presto a dire Iraq, ma da qui sono passati ottomila anni di storia, e non è certo un caso che la terra compresa tra il Tigri e l’Eufrate venga definita la culla della civiltà. Robert Byron lo addita come un Paese fatto di fango nel quale è un magro conforto il ricordo di una straordinaria ricchezza e la fecondità di arti e invenzioni. Eppure a noi emoziona ancora l’idea di toccare le pietre millenarie di templi e palazzi, di respirare l’aria dei luoghi in cui si sono combattute sanguinose battaglie di cui abbiamo letto sui libri, di calpestare il suolo dove popoli e sovrani hanno compiuto la storia che ci vede oggi protagonisti.

Da lontano lo ziggurat di Ur appare come un pan di zucchero di colore ocra. Fu edificato nel III millennio a.C. nella zona sacra della città, in un periodo economicamente florido per i Sumeri. La struttura piramidale con terrazze collegate da gradoni, ricostruita più volte nel corso della storia, fungeva da magazzino per le scorte alimentari e probabilmente anche da osservatorio. Ma la sua funzione principale era quella di luogo sacro, dove si suppone che nel tempio all’ultimo piano, accessibile solo ai sacerdoti, venissero compiuti anche sacrifici animali.

Facciamo la strada a ritroso e in tre comode ore raggiungiamo il villaggio di Al-Chibayish. Da qui ci imbarcheremo per esplorare le famose paludi, ma prima entriamo in tipico edificio fatto di canne intrecciate che lo rendono particolarmente solido, utilizzato ancora oggi dalle famiglie e dai membri di un clan per ritrovarsi a conversare e per discutere sui problemi da risolvere.

Le paludi mesopotamiche sono il più grande ecosistema di zone umide dell’Eurasia occidentale e ospitano milioni di uccelli, oltre a rappresentare una zona di sosta per molti esemplari che migrano.

Il prosciugamento delle paludi è iniziato a metà del secolo scorso per aprire nuovi terreni all’agricoltura e all’esplorazione petrolifera, e ha avuto un’accelerazione a partire dagli anni ’80 quando Saddam Hussein intraprese una massiccia bonifica costruendo dighe e canali allo scopo di allontanare e combattere i ribelli sciiti. Nel 2003 le paludi erano ridotte a circa il 10% della loro dimensione originale, ma gli irriducibili abitanti, approfittando del vuoto politico lasciato dal rovesciamento del regime, distrussero tutte le infrastrutture che minacciavano la loro sopravvivenza, e sorprendentemente le paludi ripresero quasi interamente la loro vita. Tuttavia sussistono altri pericoli che ostacolano la salvezza. La crescente siccità, l’inquinamento e la deviazione dell’acqua del Tigri e dell’Eufrate per favorire l’agricoltura da parte di Turchia, Siria e Iran sono tutti fattori altamente dannosi. E come se non bastasse è ricomparso anche il colera.

Malgrado tutto le paludi mesopotamiche rimangono un luogo unico, caratterizzato dagli abitanti chiamati Ma’dan, ovvero gli arabi delle paludi. Essi mantengono le antiche tradizioni e vivono in simbiosi con la natura, costruendo abitazioni con i giunchi, andando a pesca e allevando i bufali.

Nel mio taccuino ritrovo gli appunti di alcune emozioni della giornata appena trascorsa. “Il motore della barca spingeva forte sull’acqua, e il barcaiolo sdentato, intonando un canto che pareva più un grido di battaglia, sembrava divertirsi a vederla impennare. Speriamo di non rovesciarsi, mi dicevo quando, affrontando le curve, i bordi delle fiancate sfioravano il pelo dell’acqua, e saltavamo sulle increspature provocate dal movimento. Le fronde delle canne mosse dal vento ci salutavano al nostro passaggio. Un airone candido come la neve ha fatto capolino tra le frasche, ci ha guardati distrattamente e poi ha spiccato il volo per raggiungere i suoi compagni che volteggiavano in cerca di cibo. Abbiamo ormeggiato ad un isolotto per il pranzo. Il barcaiolo ha preparato il fuoco, poi si è accovacciato, indifferente del fumo che proveniva dal braciere, a cucinare i due grossi pesci rombo che grondavano sangue sui tizzoni ardenti. Abbiamo consumato le carni, accompagnate da cetrioli e pomodori crudi, all’ombra di una capanna che generalmente viene usata come stalla per gli animali. Nel pomeriggio ci siamo spinti fino ad un altro isolotto abitato da una famiglia. La casa di fango e paglia è composta da una sola stanza nella quale si accede scalzi. Al centro arde un fuoco racchiuso da pietre che serve per riscaldarsi e cucinare. A terra tutto intorno ci sono i tappeti che fungono da materasso; le coperte sono ripiegate e ammassate in un angolo, e sul lato opposto ci sono le stoviglie. Il minimo indispensabile è l’essenziale, e questo basta. Mentre ci allontaniamo con la barca, le bambine ci salutano dal ciglio con un gesto aggraziato. Timide e composte, occhi castani e capelli ricci al vento, non celano la sottile curiosità verso gli estranei che certamente non sono abituate a vedere. E poco importa a tutti se i vestiti sono un po’ sporchi e stracciati, o se il letame sulle mani nasconde lo smalto sbavato sulle unghie, ciò che è passato in questi brevi attimi è stato un momento di autentica generosità. Il tramonto infuocato mentre lasciavamo le paludi è stata pura scenografia, ma il rosso in tutte le sue sfumature era talmente vivido e intenso che sarà difficile dimenticarlo.”.

Rientriamo in serata a Nasiriyya giusto all’orario per la cena. La cucina irachena è variegata, tanto da essere un punto di orgoglio per questo popolo, e in effetti anche a non dispiace. Oltre al solito shis-kebab, ordiniamo degli ottimi dolmah, involtini di verdure ripieni di riso e agnello, e un fantastico hummus di cui non esitiamo a mangiare due ricolmi vassoi.

A tavola chiediamo al nostro habibi, è l’appellativo affettuoso che significa “amico caro”, notizie riguardo all’attentato del 2003 contro il contingente italiano dislocato in città, ma le risposte sono vaghe ed elusive, quasi non volesse parlarne per ignoti motivi, fa finta di non sapere o di avere dimenticato e, vista la sua reticenza, preferiamo glissare sull’argomento.

Prima di lasciarci andare a riposare, Sajad ci preannuncia, sempre con il solito sorriso pacato che lo contraddistingue, che domani mattina partiremo all’alba. Nessun problema, rispondiamo, mica siamo in vacanza!