Prima dell’alba facciamo conoscenza con Sajad: sarà la nostra guida in Iraq. È un ragazzo carino nei modi di fare e, malgrado la giovane età, già molto esperto del mestiere. Il tempo di un caffè e diamo inizio all’avventura irachena.

A venti chilometri da Baghdad ci fermiamo a quello che rimane dell’antica città di Ctesifonte, il famoso arco costruito dai sasanidi quattordici secoli fa che adesso è puntellato da impalcature come un vecchio sofferente. Sembra un miracolo che i suoi quaranta metri di altezza, innalzati con mattoni crudi di fango, resistano ancora al tempo e alle vicende che lo hanno scosso, eppure si staglia ancora fiero e imponente contro il cielo azzurro.

Proprio davanti, a poche centinaia di metri, non passa inosservato un ecomostro di pari altezza dell’arco. Si tratta di uno dei tanti palazzi di Saddam costruiti per autocelebrarsi, e lasciare un’impronta proprio come facevano i re e gli imperatori.

La giornata è splendida, ma la temperatura sembra scendere proporzionalmente all’alzarsi del sole. Proseguiamo verso sud per giungere in tarda mattinata a Babilonia. Il primo insediamento conosciuto della città, detta anche Babele, risale al 2500 a.C., e il suo nome tradotto dall’accadico significa “porta di dio”. Situata nella Bassa Mesopotamia e attraversata dall’Eufrate, ebbe il suo massimo splendore tra il 1792 e il 1750 a.C. sotto il governo di Hammurabi, divenendo un centro cosmopolita. Ed è proprio dal caos generato dalla difficoltà di comunicare tra le tante lingue parlate che si ha la traslazione in senso figurato dell’affermazione: “questa è una babilonia”. Inoltre i babilonesi erano amanti dell’ozio e del divertimento. Infatti lo svago con la musica, il ballo, i giochi, le feste e le processioni, rappresentava una parte fondamentale della quotidianità. Ciò non toglie che si trattasse di una società ben strutturata e altamente civilizzata. Lo dimostra il famoso codice di Hammurabi, oggi conservato al Louvre di Parigi, una stele alta oltre due metri sulla quale è incisa in caratteri cuneiformi una delle più antiche raccolte di leggi, nelle quali il re, legittimato dall’autorità divina, sanciva equamente diritti e doveri per le varie classi sociali.

Entriamo dalla porta di Ishtar, una copia di quella ricostruita nel museo di Pergamo a Berlino con i materiali degli scavi archeologici trafugati nel 1930. Voluta da Nabucodonosor II per difendere la città, la porta è una meravigliosa opera d’arte, collegata alla via processionale che conduceva al tempio del dio Marduk e ai più importanti monumenti religiosi. Il giallo-oro delle decorazioni floreali e delle file di bassorilievi che raffigurano gli animali sacri, il toro e il drago, spicca notevolmente sul blu intenso delle maioliche fatte di lapislazzuli. Lo sguardo è totalmente rapito da questo capolavoro, tanto da non lasciare spazio a tutto ciò che lo circonda.

Anche il palazzo reale è una ricostruzione voluta da Saddam Hussein per magnificare la propria grandezza. E per lasciare un’ulteriore impronta della sua lunga mano, ha fatto inserire nei muri, in ordine sparso e mischiate alle epigrafi originali, delle formelle su cui è incisa un’autocelebrazione. Alla base della cinta muraria, i mattoni più scuri sono l’unico reperto originale, eppure senza questa fedele ricostruzione avremmo solo potuto immaginare la bellezza architettonica della secolare Babilonia. Del resto lo sappiamo, questa è una terra saccheggiata da eserciti e archeologi, e ciò che non è stato depredato, lo hanno martoriato le guerre.

Sullo sfondo, dall’alto di una collina, domina queste mura un altro palazzo di Saddam. Decidiamo di andare a vederlo da vicino, ma è tutt’altro l’effetto che fanno le antiche mura rispetto a queste facciate ricoperte di bassorilievi raffiguranti il rais che con sguardo vigile impartisce la via da seguire al proprio popolo.

Questa è stata una delle sedi del comando americano durante la Seconda guerra del golfo, ma oggi rimangono solo le mura. Branchi di turisti locali vi passeggiano come in un giardino, e i bambini chiassosi corrono nei corridoi e nella grande sala del trono, quasi a schernire, in una sorta di tragicommedia, il terrore di un tempo non troppo lontano.

In serata arriviamo a Karbala, la seconda città più santa per gli sciiti, perché qui riposano le spoglie di Husayn, nipote del profeta Muhammad. Lasciati i bagagli, ci dirigiamo subito verso il mausoleo che sorge nel luogo dove Husayn fu trucidato insieme a settantadue seguaci dall’esercito omayyade. In questo luogo, che al tempo era poco più che un villaggio, non si consumò soltanto un atroce delitto, coronato con la decapitazione di tutte le salme, ma ebbe luogo anche l’atto definitivo con il quale il mondo musulmano si spaccò definitivamente tra sciiti e sunniti.

Le strade sono colme di gente e arriviamo a stento al varco del mausoleo. Impossibile accedere in questo momento e decidiamo di riprovare in nottata, nella speranza che i fedeli si siano diradati andando a dormire.

Fa freddo, molto freddo, un freddo inaspettato. Un vento gelido ci abbraccia irresistibilmente e decido di comprare un pigiama da indossare a pelle per ripararmi. Il negoziante mi assicura che quella è la taglia più grande, e in effetti l’etichetta riporta una misura addirittura superiore a quella che generalmente indosso, ma quando lo apro per verificare, i pantaloni mi arrivano a metà polpaccio e la maglia poco sotto il gomito. Entrambi ci mettiamo a ridere, ma, essendo l’unica alternativa, lo pago e corro ad indossarlo.

La città sembra non dormire mai e ruotare attorno solo ai due mausolei. Passiamo il capodanno sulla terrazza del nostro albergo, ammirando dall’alto lo sfavillio delle luminarie che proviene dalle moschee e mangiando degli ottimi halvà traboccanti di miele acquistati in una pasticceria. E naturalmente brindiamo al nuovo anno solo con acqua minerale, perché qui più che altrove è severamente vietata qualsiasi bevanda alcolica.

Alle quattro del mattino tentiamo nuovamente di entrare nel mausoleo. Le strade brulicano di gente come in pieno giorno e all’ingresso c’è ancora un’enorme calca, ma stavolta riusciamo nell’ardua impresa. Lasciamo malvolentieri le scarpe allo strapieno guardaroba, i piedi gelano ma almeno ci sono un’infinità di tappeti. Uomini e donne hanno accessi separati, e per il “sesso inferiore” è obbligatorio indossare il chador.

All’interno troviamo uno sfarzo di specchi e luci che decorano gli immensi ambienti ricolmi di persone inginocchiate in preghiera. A fatica raggiungiamo la sala della tomba dove una folla invasata tenta di aggrapparsi a forza di spintoni alla grata di protezione.

Usciamo quasi frastornati. All’estremità opposta della piazza c’è un altro imponente mausoleo, quello del fratellastro di Husayn: Abbas. Decidiamo di entrare anche qui, malgrado la situazione sia praticamente la stessa del mausoleo di fronte.