Pochi minuti dopo l’esplosione e i vigili del fuoco arrivarono sul luogo dell’incidente. Tutto era avvolto da un’acre e densa nube di fumo tossico. Mentre divampavano incendi ovunque, i detriti avevano ricoperto il tetto del reattore n. 3 e una luce intensa di colore rosso fragola proveniva dal nocciolo del reattore n. 4. Così alle prime ore dell’alba venne spento il reattore n. 3 che era in grave pericolo data la vicinanza al luogo dell’incidente e la mole di detriti che lo avevano invaso.

Al mattino tutti gli incendi erano stati completamente domati dai sessantanove pompieri impegnati che usavano le loro normali tute e maschere antigas. I vigili del fuoco riuscirono così a scongiurare lo scoppio del reattore n. 3, ma furono anche i primi ad accusare i danni acuti da radiazioni: vomito, debolezza, e lesioni della pelle fino alla desquamazione. Molti di loro morirono per effetto delle radiazioni, avevano tutti dai ventidue ai ventotto anni, e tutti sono stati premiati con il titolo di eroe dell’Unione Sovietica.

Il reattore distrutto rappresentava una fonte enorme di radiazioni che doveva essere arrestata, quindi fu approntato un piano per la risoluzione dei problemi più immediati. Fin dal primo momento i militari, oltre a decontaminare, furono impegnati a presidiare l’area di alienazione. Le azioni da intraprendere erano decise sulla base delle fotografie scattate dagli aviatori ad una pericolosissima altitudine, variabile dai cento ai duecento metri.

Dopo numerose consultazioni fu deciso che il reattore esploso sarebbe dovuto essere riempito o tappato usando una miscela di sostanze: sabbia, acido borico, argilla e piombo. Gli elicotteri lanciarono dal 27 aprile al 10 maggio circa cinquemila tonnellate di questo materiale, che coprì il reattore con uno spessore da uno a quindici metri.

Inizialmente gli elicotteri facevano il loro lavoro senza sosta e privi di protezione, e solo successivamente vennero protetti con delle schermature di piombo. Tra le numerose e svariate operazioni portate a termine dagli elicotteri a Chernobyl, ce ne fu una, unica nel suo genere, in cui un pilota calò perpendicolarmente nel nucleo del reattore dei sensori agganciati ad un cavo di acciaio da un’altezza di duecento metri, per rilevare le radiazioni.

Nelle prime settimane gli sforzi di decontaminazione continuarono senza sosta. I soldati che salirono sul tetto del reattore n. 3 per spazzare i detriti radioattivi erano muniti di una tuta di piombo pesante venticinque chili e potevano rimanere in quello spazio solo a turni di novanta secondi.

La gran parte della pulizia venne svolta tra il 1986 e il 1987 da trecentocinquantamila liquidatori che giunsero da ogni parte del paese e furono organizzati in squadre che potevano lavorare fino a un periodo di tempo limite di due settimane, oppure al raggiungimento dell’assorbimento massimo consentito di radiazioni, ovvero 25 Rem. Il 90% dei liquidatori che hanno lavorato alla decontaminazione sono morti per cause riconducibili all’effetto delle radiazioni.

Le emissioni radioattive si depositarono sulle pinete intorno alla centrale, facendo comparire una pericolosissima area di dieci chilometri quadrati denominata “foresta rossa”, che venne rasa al suolo e interrata nel corso dei lavori di decontaminazione. Il nome “foresta rossa” deriva dal colore assunto dai pini dopo la loro morte, causata dall’assorbimento di elevati livelli di radiazioni: duemila Roentgen, una quantità che ucciderebbe un essere umano in una settimana. E’ proprio grazie alla densità di vegetazione nelle foreste circostanti alla centrale, che assorbirono una quantità di radionuclidi doppia rispetto alle aree abitate, si può affermare che gli alberi contribuirono notevolmente a salvare gli esseri umani. Nelle aree disboscate furono poi piantati nuovi alberi, ma gli scienziati che studiarono i fenomeni collaterali alla catastrofe rilevarono mutazioni genetiche all’ambiente e un incredibile incremento delle malformazioni negli animali. Infine vennero costruiti degli argini in cemento per contenere le acque dei fiumi contaminati.

I lavori di decontaminazione continuarono fino al 1991, impegnando oltre seicentomila liquidatori, in maggioranza militari, che lavorarono incessantemente nella zona. I certificati medici dei militari che presero parte alla decontaminazione risultarono smarriti o, come appurato in seguito, falsificati, dichiarando un tasso di assorbimento delle radiazioni di gran lunga inferiore a quello reale.

Uno dei compiti più pericolosi della pulizia fu affidato ai minatori di carbone i quali, provenienti nei primi giorni di maggio del 1986 dall’Ucraina e dalla Russia, furono impiegati nella costruzione di una piastra di cemento nel sottosuolo del reattore, destinata a sostenere il combustibile nucleare fuso e ad evitare che lo stesso si infiltrasse ancora di più nel terreno, andando ad inquinare le falde acquifere. I minatori lavorarono con i loro normali semplici attrezzi, pale, carrelli, e martelli pneumatici, e a causa dell’immane calore alcuni si toglievano le tute di protezione.

Nel frattempo venne coinvolta anche l’aeronautica civile che, con un’apposita flotta, provvedeva a trasportare sul sito tecnici e operai, e a portare fuori le persone ammalate.

Per via fluviale, invece, venivano trasportati i materiali per la costruzione del sarcofago. Le barche attraccavano al porto di Chernobyl che prima dell’incidente veniva usato per fare arrivare le persone e i beni di consumo.

Tra maggio e novembre del 1986, novantamila persone tra tecnici e operai lavorarono alla costruzione del primo sarcofago che sarebbe dovuto durare trenta anni; gli operai lavorarono giorno e notte per colare quattrocentomila metri cubi di calcestruzzo. Nonostante tutto, nei mesi successivi vennero riattivati i reattori 1, 2 e 3.

A seguito delle pressanti richieste internazionali nel tempo sono stati spenti i reattori 1 e 2, e solo a dicembre del 2000 il reattore n. 3 è stato fermato. Intanto nel 1992 l’Organizzazione Mondiale della Sanità confermò i rapporti che dimostravano un aumento dell’80% di casi di cancro alla tiroide nei bambini.

Un elemento determinante nella catastrofe di Chernobyl è stata la partecipazione della comunità internazionale. In Ucraina più di tre milioni e mezzo di persone, di cui un milione e quattrocentomila bambini, sono state classificate come “vittime di Chernobyl”. Oltre cinquanta programmi sono stati disposti da organizzazioni internazionali, e circa trenta paesi, attraverso le associazioni umanitarie, hanno ospitato i bambini di Chernobyl.

L’incidente è sempre stato sottostimato, e ancora oggi le conseguenze non sono state eliminate in quella che viene definita la “zona di esclusione”, dove all’interno tutto è ancora congelato nel passato. Ancora oggi è possibile vedere lo stabilimento per la conservazione del pesce lungo un’ansa del fiume, dove in speciali gabbie veniva sperimentato l’allevamento, la caserma dei pompieri dove su un plastico il personale si esercitava per le emergenze in un territorio così particolare, la colonia estiva per le vacanze dei figli dei tecnici della centrale, un Kolkhoz, la comune agricola Sovietica, e infine il deposito dei macchinari utilizzati per la decontaminazione dove giace anche l’ultimo treno passeggeri arrivato a Chernobyl.

Purtroppo le catastrofi causate dall’uomo resistono nella storia all’uomo stesso, e Chernobyl ha dimostrato che la terra è troppo piccola per poter sopportare simili disastri.