Scendiamo la valle Dogooni che fa parte della catena montuosa nel Pakistan settentrionale. Siamo diretti alla città di Khaplu, situata in un distretto della regione del Gilgit-Baltistan, per andare a visitare il bellissimo vecchio palazzo fortificato e l’antica moschea in legno risalente al XIV secolo.

Da qui passava una carovaniera della Via della Seta, oggi è la strada di transito nel corridoio economico tra la Cina e il Pakistan.

Alla nostra destra scorre impetuoso il fiume Shyok, un affluente dell’Indo.

Dopo le gravi alluvioni che hanno devastato il nord del Paese nei giorni scorsi, causando non pochi disastri e dispersi, oggi risplende un sole caldo e accecante in una giornata limpida e serena. Quasi una beffa ai danni di questo popolo già tanto provato da innumerevoli vicissitudini.

Sono giorni che attraversiamo guadi e corsi d’acqua con una potente jeep molto alta, e ogni tanto incontriamo sugli argini dei fiumi degli accampamenti di nomadi. Ehsan, la guida che ci accompagna, mi dice che sono i Sonewal, i cercatori d’oro di queste poderose montagne ricche di minerali.

Il nostro amico è alquanto riluttante ad avvicinarsi agli accampamenti perché, conoscendo le abitudini schive di questa gente, sa che non amano molto i forestieri e gli intrusi. Faccio una tale pressione che alla fine si convince ad assecondare la mia curiosità, continuando però a non comprenderla.

Appena ci vedono i nomadi si mettono immediatamente in agitazione, ma è sufficiente stringere la mano al più anziano per scongiurare i timori di Heisan ed essere accettati dalla piccola comunità. L’uomo indossa un logoro e untuoso shalwar kameez, l’abito tradizionale. La mano che stringe la mia è rude, callosa e screpolata, seccata dall’acqua e indurita dallo stremante lavoro di anni. Intanto i bambini, suscettibili al gesto e più istintivi dei grandi, rompono istantaneamente la timidezza e senza indugiare ci circondano, sorridendo e scherzando tra loro. Forse ci prendono anche in giro, ma poco importa in quel momento perché l’intuito ci guida a partecipare all’ingenua gioia.

Non occorrono molte parole per comprenderci con quell’uomo, e mentre ci squadriamo, prendendo empaticamente le misure uno dell’altro, alcuni ragazzi stanno svolgendo il loro lavoro quotidiano a piedi nudi sui sassi. Io provo dolore al solo pensiero di togliermi le scarpe e muovere due passi, loro invece riescono anche a correre su quella pietraia.

Gli attrezzi sono rudimentali, ma evidentemente efficaci allo scopo. Un bambino scalpella tra i i massi, e un altro trasporta la sabbia nera all’uomo che manovra sapientemente il setaccio di legno sulla riva del fiume. Versando continuamente acqua nel setaccio, la sabbia viene lentamente ripulita dalle impurità fino ad ottenere una polvere più fine che viene deposta in una grande ciotola di legno, qui è possibile vedere se risplende qualcosa. Infine vengono versate delle gocce di mercurio, altamente tossico, per purificare le insignificanti pepite e pagliuzze di oro che poi verranno vendute a Skardu e Gilgit. Il guadagno è sempre incerto e ovviamente dipende da quanto è stato raccolto.

Muhbat Khan mi invita nella sua tenda rappezzata per prendere un tè. È un simbolo di piena accoglienza. I bicchieri sono talmente sudici che non posso fare a meno di passare in rassegna le malattie che stavolta mi prenderò, ma non oso oltraggiare l’ospitalità rifiutandomi di bere, dunque sfido la sorte appoggiando il delicatamente il vetro alle labbra. Ci sediamo su una vecchia coperta consunta a gambe incrociate, uno davanti all’altro, proprio come degli amici che si rivedono dopo tanto tempo. I bambini sono sempre curiosi delle novità, e nella monotona vita di questi remoti luoghi ne arrivano davvero poche, così fanno capolino per sbirciare lo straniero. Muhbat non manifesta alcuno imbarazzo per l’indigenza, anzi con sguardo altero e penetrante mi dice che ha cinquantotto anni e sedici figli, ed è fiero di essere a capo della sua famiglia che adesso conta trentadue persone tra adulti e bambini. Lui ha sempre fatto questo mestiere, tramandato da generazioni. Sotto il cappello pashtun vedo un volto bruciato dal sole, e una folta barba canuta che lo adorna. L’uomo, con voce ferma e decisa, dichiara che questa è la sua vita, la loro vita, non ne conosce altre e quindi non ha invidia o aspirazione per qualsiasi cosa di diverso. Si potrebbe definirla come la consapevolezza dell’identità nell’ignoranza dell’esistenza, eppure, malgrado la conduzione di una vita a dire poco ardua e difficile, e a definirla benevolmente semplice e incerta, non si scorgono incertezze come nei ceti che tendono al benessere quale unica fonte di felicità. Qui non esistono “zone di conforto”, non esistono falsi miti o shopping consolatori. Tutto si svolge alla luce del sole, sotto gli occhi dell’intero clan. E come in ogni comunità con una cultura nomade, gioie e dolori, problemi e soddisfazioni, vengono condivisi da tutta la famiglia.