Sary Tash, che tradotto significa pietra gialla, è un minuscolo villaggio del Kyrgyzstan che si trova nella valle Alaj, a 3150 metri sul livello del mare. Siamo in quota e le condizioni meteorologiche sono davvero inclementi: qui può iniziare a nevicare in qualsiasi momento, anche in estate. Questo però è anche un importante nodo stradale in quanto si incrociano la M41, l’autostrada che scende dal  Pamir dopo aver superato il Passo Kyzyl Art a 4280 metri, e la A371 che porta verso la Cina, in direzione Irkestam fino a Kashgar.

Al tempo di Marco Polo da questa vallata transitava la Via della Seta, e l’insediamento era sede di un fiorente mercato dove venivano scambiate le merci provenienti dai lontani Oriente e Occidente. Oggi però non rimane più nulla di quei momenti così prosperi, niente che ricordi il fermento delle genti che si incontravano, che contrattavano e ripartivano con cavalli e cammelli carichi di ogni genere di mercanzia. Qui oggi non approdano più neppure i turisti in cerca di quell’antico mondo carovaniero che rese celebre questo altopiano. Il frastagliato abitato conta poche centinaia di case con i tetti ricoperti di parabole della televisione e sterco ad essiccare, e le povere famiglie che vi abitano sono tutte dedite alla pastorizia.

Durante l’occupazione sovietica l’altopiano era considerato zona strategica e la città brulicava di militari. Dietro la mandria di cavalli che stazionano sulla strada perché, essendo più caldo, sono meno infastiditi dai tafani, scorgo gli enormi palloni che servivano da centro di telecomunicazioni e controllo del traffico aereo. Tutta l’area è ancora oggi considerata zona militare e non riesco in nessun modo a corrompere Akyl a farci scavalcare il recinto elettrificato per avvicinarsi ai palloni.

Akyl è la nostra guida, un ragazzo simpatico che parla un buon inglese. L’etimologia del suo nome significa “intelligente”, e non stentiamo a credere che realizzerà i progetti per la sua vita che ci racconta mentre sorseggiamo una tazza ristoratrice di tè caldo. Ci confessa che è in procinto di sposarsi, così decidiamo immediatamente che stavolta non ci limiteremo solo a lasciare una buona mancia quale simbolo del nostro passaggio in questo luogo che sembra proprio dimenticato dall’uomo. È il nostro modo per testimoniare che si può fare qualcosa di tangibile per l’umanità che incrociamo, specialmente in luoghi più poveri e distanti dai riflettori della notorietà, perché anche questo fa parte del viaggio.

Nel conversare Akyl ci racconta che a trenta chilometri da Sari Tash c’è una miniera di carbone a cielo aperto, e stavolta non riesce ad esimersi dall’accompagnarci a curiosare. Finito il tè saltiamo in macchina e partiamo.

È una giornata limpida e serena, ma da lontano scorgiamo una nube densa e opaca fino a mezza costa della montagna verso cui ci stiamo dirigendo, e non presagisco niente di buono. Mentre ci avviciniamo penso che ce ne sono molti di inferni sulla terra, e questo è uno dei tanti. Entriamo nella cava. Fuori il cielo terso, dentro una nube oscura. La montagna è stata letteralmente sventrata, sbranata dalle ruspe fino al cuore nero. E come in ogni luogo dove la mano dell’uomo ha modificato radicalmente l’ambiente, deturpando ciò che la natura aveva creato, il paesaggio assume un aspetto lunare, arido e scabroso.

Una fuliggine scura avvolge tutta l’area, mentre sullo sfondo, in lontananza, si erge imponente il Lenin Pik che dall’alto dei suoi 7134 metri coperti da un ghiacciaio perenne, sembra gettare un’ondata di ossigeno in questo luogo dove il solo atto di respirare dà l’impressione di essere insalubre.

Carrozzoni e container sono le abitazioni dei lavoratori e delle loro famiglie. Abitano qui in media per due anni, dopo i cavatori si ammalano e sono costretti ad andarsene. Il ruscello che scorre tra le baracche rifornisce l’agglomerato di acqua che serve per tutte le necessità, e viene istintivo domandarsi quanto sia potabile. Mancano la televisione e i mezzi di comunicazione, le persone sono visibilmente cupe e anche i bambini portano la tristezza sul volto. Per ripararsi dal freddo e dalla polvere proveniente dall’adiacente area degli scavi, non rimane che rintanarsi nelle roulotte, suscitando ancora più desolazione all’abitato. La vita nell’accampamento è molto dura e non sono apprezzati gli intrusi e i curiosi. Comprendiamo la rabbia e il pudore di chi è costretto a condizioni abitative che inevitabilmente segnano l’esistenza così, date le circostanze, ci allontaniamo in tutta fretta.

Akyl mi racconta che nel fine settimana la popolazione locale viene alla miniera per recuperare gli scarti lasciati durante gli scavi e rivenderli al mercato nero per pochi spiccioli. Quest’area è proprietà privata e teoricamente sarebbe proibito entrare, ma tutti, compresa la polizia, chiudono un occhio per agevolare la povera gente che vive da queste parti. Uomini e donne si arrampicano senza protezioni sul dorso di una collina dove i camion vanno a scaricare il materiale di scarto, e dall’alto lanciano i massi da portare via. L’operazione è molto pericolosa e Akyl mi dice che gli incidenti sono frequentissimi. Solo due mesi prima un suo amico è scivolato sotto una frana che gli ha spezzato entrambe le gambe.

Dalla miniera escono circa duecento camion al giorno che passano da una enorme pesa a ponte, le bilance per grossi camion con rimorchio, che determina la quantità di carico al fine di calcolare le tasse da corrispondere al governo. Il proprietario, un ricco possidente kyrgyzo di cui Akyl, misteriosamente, non vuole neppure pronunciare il nome, possiede la concessione per scavare e vendere il carbone a cento dollari per tonnellata. Ultimata l’operazione burocratica, l’interminabile catena di autotreni si dirige verso la frontiera cinese perché l’intera produzione estrattiva è destinata al più fiorente mercato asiatico, sempre affamato di ogni genere di materia prima.

Angosciati ma senza giudizio, lasciamo questo desolante girone dantesco abitato da anime che non hanno scelta per sopravvivere.