Houyeh è un villaggio abitato da circa duecento famiglie, situato nella provincia di Isfahan, proprio nel cuore dell’Iran storico.
Hamed, guida iraniana con un dolce accento italiano, ci propone di visitare il villaggio, dove per altro è nato, per vedere un sito ancora sconosciuto ai circuiti turistici, un luogo che si rivelerà magico per l’atmosfera che, accogliendo immediatamente l’offerta, ci avrebbe riservato.
All’arrivo tutta la comunità ci stava attendendo con ansia e il nostro amico, per rendere l’evento più ufficiale, ha perfino fatto arrivare la polizia la quale, giustamente, non si preoccupa di scortare un piccolo drappello di turisti, bensì di stringerci le mani.
Il primo caloroso saluto lo riceviamo nel fresco giardino del sindaco, sotto un bel pergolato dove gli uomini ci offrono dolci e tè, e le donne, in disparte, ci mostrano i loro manufatti, i lavori artigianali e artistici che producono nel villaggio.
L’economia di Houyaeh si regge sull’agricoltura, e in particolare sulla coltivazione del riso, che riesce a far vivere dignitosamente l’intera comunità composta da un migliaio di persone.
Lentamente rompiamo il ghiaccio e, come accade sempre e ovunque in questo splendido paese, le persone iniziano ad avvicinarsi usando quel poco di lingua inglese che conoscono per colloquiare, e i cellulari per farsi fotografare insieme ai nuovi stranieri.
L’ospitalità è indubbiamente una delle peculiarità che maggiormente colpiscono chi visita l’Iran. Ma c’è anche di più dietro il calore, la disponibilità e l’apertura, curiosa quanto coraggiosa, al nuovo, ovvero quell’orgoglio più umano che nazionalista che spinge un popolo a mostrare il proprio animo generoso, così differente da quella propaganda che sa bene giungere in occidente, quell’informazione tendenziosa in cui il popolo iraniano non si riconosce.
Infatti non è infrequente imbattersi nella domanda “cosa pensi dell’Iran?”, quasi fosse un sondaggio a caldo, ma non dobbiamo dimenticare che il quesito parte sempre dalla gente comune che antepone la semplicità dell’istinto alla complessità dell’informazione.
Ma il tempo è tiranno, e dobbiamo letteralmente sfuggire alla folla gioiosa che ci trattiene per andare a visitare le quattordici torri disseminate tra i campi attorno al villaggio.
Le torri, costruite con mattoni crudi intonacati da una mistura di fango e paglia, risalgo approssimativamente a duecento anni fa, ed ognuna appartiene a una diversa famiglia che si tramanda di generazione in generazione.
Hamed ci conduce a vedere diverse torri e in alcune, con molta attenzione data la precarietà degli edifici, è possibile anche entrare.
Le torri, che ricordano per funzione quelle di alcune cittadine italiane del medioevo e quelle georgiane al confine sovietico, vennero erette come postazioni elevate per l’avvistamento dei nemici poichè in quel periodo storico vi erano forti lotte interne tra le varie tribù persiane. Successivamente le torri vennero trasformate in piccionaie per raccogliere ogni stagione dell’anno circa cinquecento chili di guano dei volatili che serviva a concimare naturalmente i campi.
In un perfetto gioco di incastri dei singoli nidi a terrazzino, nel suo interno ogni torre può contenere fino da settecento a novecento piccioni.
Le pareti sono un’incredibile texture, ma purtroppo pavimenti e solai sono attualmente sconnessi e pericolanti.
Sono oramai oltre vent’anni che nessuna torre viene restaurata, ma ultimamente si è formato un comitato che attraverso una forma cooperativa si sta autosostenendo e riceverà presto uno stanziamento di ingenti fondi statali per ristrutturare le torri.
La giornata volgeva al termine quando, prima di entrare nella casa di un’altra famiglia che ci ospitava generosamente per la cena, mi sono lasciato rapire da un maestoso tramonto che stava infuocando la campagna.
E mentre l’aria si faceva più mite lanciavo l’ultimo sguardo alla silhouette delle torri che lasciavano il loro colore caldo del giorno al buio della notte.