Da bambino mi divertivo a tracciare con il dito fantasiose rotte su un vecchio atlante che possiedo ancora oggi. Viaggiavo tra i monti dipinti di marrone che diradano nel verde delle colline e delle pianure per poi perdersi nelle tante sfumature blu di mari e oceani. Fantasticavo, senza una meta precisa per il solo gusto di viaggiare che, inconsciamente, avrei concretizzato solo più tardi. Poi da ragazzo vennero le immagini, poche perché a quei tempi non esisteva internet, impresse nella mia mente da un documentario visto alla televisione, scovate nel servizio su una rivista, e chissà dove che adesso non ricordo più. Nel mio immaginario rappresentavano luoghi fantastici, mondi lontani che, ingenuamente, mi sembravano inesplorati. Insomma, fu la curiosità a muovere i miei primi passi verso l’ignoto del viaggio. Tra i tanti miti che mi ero creato senza un apparente motivo c’era anche quello del lontano Tibet che sull’atlante ricordo essere colorato in parte con il bianco della neve e dei ghiacci. E quando i sogni di bambino diventano desideri di adulto, certe volte la magia si avvera, perché i sogni alimentano la vita, ma poi si vive di esperienze.

Ore 06.00, provincia di Xiahe, l’alba deve ancora spuntare, ma al monastero di Labrang si aprono già le porte. Siamo nel Tibet Orientale a circa duemilanovecento metri di altezza. È l’ultimo giorno di dicembre, il termometro segna -30° e ci sembra un modo fantastico per festeggiare il capodanno Occidentale in compagnia di centinaia di monaci e pellegrini buddhisti.

Lontani dalle abitudini alle quali ogni volta che ci è stato possibile siamo scappati, distanti dalle banalità che si sprecano in questo giorno considerato speciale per mera consuetudine, ci mescoliamo alla folla di forestieri come fosse un giorno qualunque, e in fondo lo è veramente.

Nell’atrio dell’entrata alcune vecchie foto in bianco e nero ritraggono i volti delle persone e mostrano le condizioni di vita agli inizi del secolo scorso. Rimango sempre affascinato dalle immagini del passato, soprattutto per le incredibili variazioni che si notano al confronto con il presente, ma in questa terra così diversa dai costumi e dalle usanze che siamo abituati a vedere, dove la spiritualità assume un valore essenziale dell’esistenza, poco sembra essere davvero cambiato.

Molte persone hanno intrapreso un lungo viaggio, rigorosamente a piedi, per giungere fino a questo luogo sacro. Alcuni sono vestiti con i pesanti abiti caratteristici, lunghi fino ai piedi e con le maniche che arrivano quasi alle ginocchia per ripararsi dal freddo, altri invece indossano improbabili piumini di terza mano provenienti da non si sa da quale parte di mondo. Sciarpe e mascherine servono solo per ripararsi dal freddo, e dalla polvere che viene respirata nell’atto di genuflessione e prostrazione al suolo. Aggrappati a bastoni e grucce, anche i più anziani non temono il sacrificio, e si trascinano nel percorso, quasi fosse il loro ultimo atto su questa terra.

L’aria è pulita e il cielo terso, limpido come solo in alta quota si può apprezzare, e il freddo ci punge il viso. Siamo gli unici occidentali e, malgrado l’evidente stonato abbigliamento, nessuno sembra notare la nostra presenza, perché qui tutti si spogliano del proprio apparire per dare spazio esclusivamente alla spiritualità interiore, una sorta di livellamento sociale che presuppone soltanto la linearità della fede.

Il rituale prevede il giro completo in senso orario delle mura di cinta del monastero, un percorso di tre chilometri da effettuarsi in assoluto silenzio girando ininterrottamente le ruote di preghiera, oppure facendo un passo a mani giunte sulla testa e sul petto prima di inginocchiarsi e sdraiarsi con la faccia a terra. Un grembiule o un semplice straccio legato sul davanti aiutano a non strappare gli indumenti in questo lento e straziante incedere sul terreno. Le mani, costrette a strusciare il terreno miglia di volte, vengono protette sui palmi da speciali tavolette di legno indossate, sopra i guanti, come fossero delle ciabatte.

Incuriositi dall’esperienza mistica e per la legge del “non si sa mai”, decidiamo di intraprendere il percorso e ci incamminiamo verso sinistra: il senso di marcia ammesso dal buddhismo tibetano. Infatti, secondo questa religione, si deve sempre mostrare la parte onorevole del corpo, appunto la destra, all’oggetto della devozione, seguendo il corso del sole che nasce ad est e tramonta ad ovest.

È sempre incredibile vedere le folle accomunate dal medesimo scopo, un fine che in questo caso si sviscera nell’accumulazione di meriti derivante dalla venerazione richiesta dalla pratica religiosa.

Concludiamo il tragitto quando il sole è già alto in cielo e ci riscalda amorevolmente con i suoi raggi dorati, quasi volesse ricompensarci del piccolo sacrificio compiuto. Una tazza di tè bollente acquistata per pochi spiccioli sul carretto di un venditore ambulante ci aiuta a sciacquare la gola dalla polvere ingoiata nella parte sterrata del cammino. Poi ci dirigiamo all’ingresso dove ad attenderci troviamo il monaco che ci è stato assegnato per la visita all’interno del monastero.

Fondato nel 1709, il monastero era arrivato ad ospitare anche quattromila monaci nel momento del suo massimo splendore, ma oggi le normative imposte dalla Cina prevedono una permanenza di non più di millecinquecento religiosi. Considerato una delle più importanti università monastiche buddhiste, possiede una importante biblioteca che raccoglie oltre sessantamila sutra, ed è ancora oggi sede di numerose feste religiose che si tengono annualmente.

Ci incamminiamo nel dedalo di stradine che si intersecano ai vicoli. Questa è la zona più esterna, adibita ad abitazioni. Ogni entrata ha il portale di legno intarsiato e all’interno ogni stanza ospita da quattro a sei monaci che condividono un unico bagno.

Incrociamo gruppi di giovani monaci avvolti nella classica tunica porpora che ci sorridono. Molti portano ripiegato sulla spalla l’alto copricapo in lana di colore giallo, tipico della scuola Gelug, anche detta, appunto, dei Berretti Gialli. Il monaco che ci scorta mi spiega che il grande berretto giallo dalla strana forma ad onda protesa in avanti, viene essenzialmente indossato nelle cerimonie, oppure durante le recitazioni delle preghiere officiate da illustri religiosi.

Visitiamo vari ambienti ubicati nella parte centrale del monastero. Il grande stupa bianco, il porticato con gli affreschi floreali, la vasta sala del tempio pervasa dall'odore di incenso, la stanza con la grande ruota di preghiera in legno, antichissima, dove ogni fedele si reca almeno una volta per girare il possente cilindro. Ovunque non è ammesso fotografare e, vedendomi infastidito, il nostro monaco decide di portarci in una stanza particolare dove, socchiudendo la porta e rimanendo a guardia, mi concede cinque minuti per scattare tutte le foto che voglio. All’interno siamo avvolti da un odore acre, quasi fastidioso, ma dopo pochi attimi ci accorgiamo di essere entrati in un luogo unico e per certi aspetti magico. Siamo estasiati, le pareti sono completamente adornate di pannelli fatti di burro di yak sui quali sono state magistralmente scolpite una serie di divinità buddhiste.

Ore 12.00, usciamo dal monastero di Labrang. Il sole, alto nell’intenso cielo azzurro, brucia quasi la pelle e l’aria rarefatta inizia a farsi sentire nel respiro più difficoltoso e nei movimenti più lenti. Pervasi dall’emozione, chiediamo al nostro autista di portarci anche al monastero di Langmusi. Quattro ore di strada ed eccoci proiettati nell’omonima cittadina che sorge ai piedi del monastero. Siamo saliti di quota, ce lo hanno già dimostrato durante il tragitto gli yak che pascolavano sul ghiaccio; tremilatrecento metri, i marciapiedi e il manto stradale sono completamente gelati, rendendo la circolazione sia a piedi che in jeep molto pericolosa.

Il monastero, fondato nel 1748, è incastonato in una vallata tra i monti. Purtroppo è quasi deserto e tutti gli ambienti sono chiusi, eppure, malgrado la rigidissima temperatura, alcuni fedeli girano, spippolando il rosario buddhista, attorno all’edificio dove si trova il tempio principale, e un’anziana signora, seduta su uno sgabello, gira ininterrottamente la grande ruota di preghiera in metallo posta nella stanza sotto il monumentale stupa.

All’improvviso un gong richiama i monaci alla preghiera che si radunano sotto la tettoia di un cortile appena aperto. Mi siedo con loro, in un angolo per non disturbare e, malgrado alcuni sorrisi che spuntano dalle tuniche avvolte fino alla testa, non sembrano distratti dalla presenza estranea, e continuano a salmodiare la loro affascinante cantilena.

Lo sforzo non è indifferente per raggiungere l’umanità che popola questo angolo di terra posto sul tetto del mondo, ma, seduto sulla scalinata che conduce al cuore del monastero, ho l’impressione di respirare una serenità che va ben oltre l’appagamento.

Usciamo dal monastero al tramonto, proprio mentre i tetti dorati stanno scintillando in tutto il loro splendore. Ci imbattiamo negli ultimi pellegrini che, inginocchiandosi a mani giunte, strisciando distesi sul ghiaccio, quasi insensibili alla proibitiva temperatura, stanno giungendo al luogo sacro.

Nella vita generalmente c’è un tempo per ogni cosa, eppure l’esistenza dei tibetani sembra essere votata soltanto ad uno scopo: la preghiera.